Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2021
Oppio, racket e minerali: il tesoro dei talebani
Per il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi l’immensa ricchezza era il contrabbando di petrolio, denso e nero, trasportato da migliaia di autocisterne nei Paesi vicini. Il “greggio” dei Talebani ha invece tanti colori. È roseo o rosso, come i papaveri da oppio con cui sommergono il mondo di eroina. Verde, come le sterminate piantagioni di canapa nelle regioni di Helmand e Kandahar. Grigio, come molti minerali grezzi delle miniere illegali. Ma anche di un bianco quasi abbacinante, quello del talco che viene estratto nelle miniere controllate dai Talebani e dallo Stato islamico del Khorasan, esportato illegalmente in Pakistan e venduto ai Paesi che per 20 anni hanno combattuto gli estremisti. In testa gli Stati Uniti, ma al secondo posto, sorprendentemente, l’Italia.
Sarà per l’istruttivo precedente del Califfato dell’Isis, o per il maggior utilizzo dei social media, resta il fatto che, rispetto alla vecchia leadership, i “nuovi” Talebani sembrano aver compreso meglio come gira il mondo: una cosa è conquistare militarmente un Paese intero in pochi mesi, un’altra, e più complessa, è farlo funzionare, assicurandosi i canali finanziari volti a garantirne la sopravvivenza.
Prima regola: diversificare (come prima aveva fatto l’Isis). È bene quindi sfatare un luogo comune. Non è vero che l’oppio rappresenta la fonte di entrate quasi esclusiva dei Talebani. Le stime divergono di molto a seconda delle fonti. Tuttavia, il parere condiviso è che non copra nemmeno la metà. È solo una delle numerose attività criminali che, messe insieme, secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, hanno reso ai Talebani entrate da 400 milioni fino a 1,6 miliardi di dollari l’anno. Il perno di tutto questo business, comunque, restano quelle attività illegali che i Talebani amano definire “tasse”. Ma che non sono altro che estorsioni alla popolazione. Balzelli imposti a ogni genere di merci, attività, servizio nei territori che controllavano. Solitamente l’Ushur, la tassa islamica pari al 10% del valore della merce o del raccolto in oggetto. A cui si aggiunge la tassa religiosa, in teoria destinata ai poveri (2,5% del patrimonio), la Zakat. Anche negli anni in cui controllavano solo il 15% del Paese, i Talebani imponevano balzelli su tutto, anche sui servizi pubblici come l’acqua o l’elettricità, pur non controllando le reti di fornitura. Lo stesso valeva per le telecomunicazioni.
«Ora che l’Afghanistan è quasi tutto in mano loro, le rendite derivanti dalle loro “tasse” aumenteranno drasticamente – ci racconta Stephen Carter, capo team per l’Afghanistan della Ong investigativa britannica Global Witness – Bisogna però ammettere che mentre il sistema di tassazione del Governo era viziato da gravi atti di corruzione, e quindi più dispersivo, i talebani sono molto più organizzati ed efficienti nei loro “prelievi”».
Quando si parla di talebani il pensiero corre subito all’oppio. Ma il vero forziere di questo Paese montagnoso, senza sbocchi sul mare, sono le grandi risorse minerarie. Il valore delle riserve complessive è stimato in 3mila miliardi di dollari. Un tesoro in grandissima parte non ancora sfruttato.
Sono passati 20 anni dalla caduta del regime dei Talebani. Sotto il Governo appoggiato dall’Occidente le estrazioni sono cresciute. Diventando una fonte sempre più redditizia anche per i talebani. Minerale di ferro, rame, il ricercato litio o i lapislazzuli blu.
Secondo l’Onu il valore del business dei minerali estratti illegalmente in Afghanistan dalle miniere, tassati o rivenduti oltrefrontiera, soprattutto in Pakistan, nel 2020 ha raggiunto la ragguardevole cifra di 464 milioni di dollari. Molto di più, secondo esperti citati dal Financial Times, di quanto raccolto con l’oppio e l’eroina. «La droga non è stata una fonte di finanziamento così significativa per i talebani come molti hanno affermato», spiegava un’analista al quotidiano britannico.
Nel paniere degli estremisti c’è anche la redditizia estrazione del minerale di talco. Se negli ultimi anni i talebani e l’Isis si sono affrontati militarmente nella provincia di Nangarhar, ai confini con il Pakistan, non è soltanto per diatribe ideologiche, ma anche e soprattutto per il controllo di queste miniere. Il rapporto di Global Witness, “Prenderemo le miniere ad ogni costo. I talebani, lo Stato islamico e le bianche montagne di talco afghane” traccia con un quadro in parte applicabile anche ai commerci illegali di altri minerali. In sintesi il talco afghano, sui cui dal 2015 vigeva un bando governativo, viene “esportato” nel vicino Pakistan – i cui servizi segreti da tempo sosteng ono i talebani – mescolato alla produzione locale e infine rivenduto sui mercati internazionali.
In apparenza è tutto legale. Ma se si incrociano i dati salta subito agli occhi un’anomalia; nel 2016 il Pakistan produceva 125.330 tonnellate di talco e ne consumava 120mila. L’export ufficiale era però di 305.970 t. (ma in realtà ancora di più perché dall’Afghanistan ne erano arrivate 561.286). In altre parole, la gran parte del talco afghano diventa “made in Pakistan”. E venduto. I primi acquirenti erano gli Usa, con una quota del 43,5% dell’export pakistano di talco. Seguivano l’Olanda (13,2%) e l’Italia (10,6%). I talebani raccoglievano diversi milioni di dollari solo in tasse. «Nel 2019 l’Italia è divenuta il secondo acquirente – continua Carter- poi il business è calato. Quando i talebani decideranno di riprenderlo, potrebbero incassare decine e decine di milioni».
E veniamo al grande business dei talebani, il più famoso, il più controverso: il narcotraffico. Nelle regioni meridionali l’oppio è un’industria che offre lavoro a decine di migliaia di coltivatori. È un business complesso, in cui agiscono oscuri faccendieri, signori della guerra e politici corrotti e, naturalmente, i talebani. Che da alcuni anni non si limitano più a tassare il commercio ed i raccolti, ma hanno iniziato a controllare la filiera, dalle piantagioni al prodotto finito, ricavando centinaia di milioni di dollari.
Gli sforzi degli Stati Uniti per ridurre questa fonte di approvvigionamento sono stati vani. Nonostante gli otto miliardi di dollari spesi dal 2002 al 2017 per i programmi di eradicazione delle piantagioni di papavero e per i bombardamenti aerei contro i laboratori, il raccolto è sempre stato alto, nel 2020 è cresciuto del 36 per cento.
Anche il narco traffico si sta diversificando. La pianta dell’efedra, che cresce spontanea negli altopiani centrali dell’Afghanistan, è sempre più utilizzata per produrre metanfetamine, ha rilevato l’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossico-dipendenze. Un business in forte crescita.
Un contributo importante arriva anche dalle donazioni delle Charity organizations saudite, ma anche del Pakistan e di altri Paesi del Golfo, enti non governativi inclini a finanziare l’islam estremista, alcune dei quali sulla lista Usa delle organizzazioni terroristiche. Secondo l’Afghanistan Center for Research and Policy Studie le loro donazioni ai Talebani ammontano a 150-200 milioni di dollari l’anno. Ai principali canali si aggiungono poi i riscatti per i sequestri,le vendite di reperti archeologici ed altre attività illegali.
«I talebani – ha spiegato il famoso giornalista pakistano Hamed Rashid, – sono economicamente indipendenti: hanno guadagnato milioni di dollari grazie al commercio di oppio, allo sfruttamento delle miniere di minerali e alle tasse imposte sulla coltivazione di beni alimentari e oppio. Non hanno bisogno di soldi che vengono dal resto del mondo per sopravvivere». Vero. Ma l’Afghanistan che hanno conquistato non è più quello di 25 anni fa, quando conquistarono Kabul dopo quattro anni di guerra civile. È uno Stato che, per quanto problematico e pervaso dalla corruzione, grazie alla presenza internazionale ha sviluppato una sua Amministrazione, con tanto di servizi. Per farlo funzionare, anche male, nel 2018 il governo afghano – spiega la Banca mondiale – ha speso 11 miliardi di dollari, l’80% dei quali è arrivato da aiuti.
Ecco perché, se vogliono garantire la sopravvivenza del futuro “Emirato islamico”, i “nuovi” talebani guardano quasi con ansia alla Cina. E ai potenziali contratti minerari miliardari che Pechino è pronta a firmare.