La Stampa, 22 agosto 2021
Così Cristoforo Colombo ha cambiato la nostra tavola
Per i gourmet che frequentano ristoranti stellati e locali d’avanguardia e aspettano ogni anno con ansia la classifica dei The World’s 50 Best Restaurants la rivoluzione nel campo della cucina degli ultimi decenni ha un solo nome: Ferran Adriá. Il geniale chef catalano con le sue tecniche avveniristiche e le mille emozionanti invenzioni, dall’oliva liquida al gelato al parmigiano, che potevi provare, fino a dieci anni fa, nel suo El Bulli ha scombussolato l’alta ristorazione di tutto il mondo. A storcere il naso di fronte a una simile affermazione sono forse solo i francesi che rivendicano un’altra rivoluzione, quella della Nouvelle Cuisine anni 70. Questa aveva nei critici Gault e Millau i suoi profeti e in cuochi come Paul Bocuse, i fratelli Troisgros, Roger Vergé i suoi generali: una rivoluzione all’insegna della leggerezza per un verso ancora attuale e per un altro lontana, se si pensa che le fermentazioni e le frollature oggi tanto di moda erano aborrite nel manifesto di quel movimento.
Ma se spostiamo il punto di vista lungo la storia dell’umanità, o quanto meno dell’Europa, ci rendiamo conto che la vera e grande rivoluzione nel campo dell’alimentazione e della cucina con effetti che vediamo tuttora sulle nostre tavole porta il nome non di uno chef o di un critico gastronomico ma di un navigatore, Cristoforo Colombo. Perché a cambiare per sempre il nostro modo di mangiare e di alimentarci sono i prodotti che inseguendo l’India e le spezie Colombo ha trovato in America, continente che per un paradosso della storia non porta il suo nome ma quello del suo collega Amerigo Vespucci.
Sono tanti gli alimenti che i galeoni spagnoli ci fecero conoscere, a partire da quel 12 ottobre 1492, fatidica data della scoperta del Nuovo Mondo, in verità allora più modestamente le Bahamas: il pomodoro, la patata, il mais, il cacao, la zucca americana, i fichi d’India, l’ananas, il peperone e il peperoncino, nuove varietà di fagioli, senza dimenticare il tacchino. Alcuni di questi prodotti ebbero subito grande successo, altri hanno impiegato anche qualche secolo prima di affermarsi, ma oggi sono una parte imprescindibile della nostra alimentazione e hanno cambiato per sempre il nostro gusto. In Italia cosa sarebbe la cultura non solo gastronomica della Campania senza ’a pummarola, da mettere sugli spaghetti o sulla pizza (ma non dimentichiamo la toscana pappa al pomodoro o il ragù alla bolognese), quella delle campagne del Nord senza la polenta di mais, quella della Calabria senza il peperoncino e, se usciamo dal nostro Paese, quella irlandese senza le patate, quella spagnola senza i peperoni, quella svizzera senza il cioccolato?
Colombo non ha cambiato solo quello che ci arriva nel piatto ma anche i colori del paesaggio intorno a noi: pensiamo ai campi di mais che segnano a fine estate con il giallo delle pannocchie la Pianura padana o alle terrazze dei paesini del Sud che si accendono a settembre di rosso per i pomodori stesi al sole, in attesa di fare conserve o corone da appendere al muro durante l’inverno. O i cespugli gialli, rossi e verdi di fichi d’India, ormai una parte della macchia mediterranea di cui non potremmo cancellare l’esistenza.
A capire il valore di quella rivoluzione c’è voluto del tempo. Anche perché molti di questi prodotti erano visti, appena approdati in Europa, con un certo sospetto se non con paura, per via di molte leggende che vi fiorivano intorno. La patata, ad esempio, che gli Aztechi e gli Inca consideravano un cibo sacro, fu coltivata in Italia grazie ai suggerimenti dei carmelitani scalzi che scrissero anche una sorta di manuale d’uso con tanto di ricette: andava infarinata e fritta oppure cotta in compagnia dell’agresto (il succo d’uva acerba comune nella cucina medievale). Peccato che molti la mangiassero cruda o ne assaggiassero non il tubero ma le foglie: prese piede così la convinzione che fosse velenosa, qualcuno arrivò a dire che portava malattie come la lebbra o la sifilide. In Gran Bretagna ne fu vietata la coltivazione, perché non era citata nella Bibbia.
A proposito invece di rivoluzioni c’è da dire che Friedrich Engels, autore con Marx del celebre Manifesto del partito comunista, scrisse che la diffusione della patata rivoluzionò il mondo quanto la scoperta del ferro. Come altre piante provenienti dalle Americhe, anche il pomodoro all’inizio fu considerato una pianta ornamentale e non commestibile. Ma in breve la sua fama si diffuse nelle corti, perché si diceva che avesse poteri afrodisiaci, tanto che i francesi lo definivano pomme d’amour. Il primo sugo di pomodoro non nasce a Napoli, ma tra gli Aztechi, che coltivavano la pianta da secoli prima dell’arrivo dei Conquistadores. E prima di Napoli il pomodoro conquista la Sicilia. Se molti dei prodotti della rivoluzione colombiana possono essere coltivati anche da noi, discorso a parte meritano il cacao e l’ananas, non adatti ai climi freddi dell’Europa. Il successo del primo è sorprendente: dapprincipio sotto forma di bevanda da sorseggiare o poi di tavoletta da sgranocchiare, diventa a partire dalla Spagna una oda nelle città europee.
Discorso a parte anche per il tacchino che riesce a sostituire nei banchetti nobiliari il pavone, fino ad allora re incontrastato. Infine c’è un piatto che può legare la rivoluzione alimentare successiva alla scoperta dell’America con quella di Ferran Adriá: è la granita salata di pomodoro. Trent’anni fa fu un’invenzione rivoluzionaria per i frequentatori di El Bulli: abbatteva i confini tra dolce e salato e tra caldo e freddo in cucina. Oggi è considerato un’icona del cuoco catalano. È stata imitata mille volte e, dopo che lui l’ha lanciata, sembra una preparazione semplice. Quasi l’uovo di Colombo.