Dal suo studio nella casa di Londra in cui vive con la famiglia, pareti colorate in verde menta e librerie, Lisa Jewell riflette così sulla strada che da impiegata in un’azienda di moda l’ha portata a essere una delle gialliste britanniche di maggior successo, con diciannove romanzi alle spalle e cinque milioni di copie vendute in tutto il mondo.
Ora il suo La famiglia del piano di sopra arriva in Italia: racconta la storia di Libby, commessa in un negozio di cucine, adottata da neonata, che a venticinque anni entra in possesso dell’eredità dei genitori biologici: una villa a Chelsea, quartiere esclusivo di Londra. Insieme alla prospettiva della sicurezza economica, tuttavia, arriva la consapevolezza che il suo passato è un buco nero: papà e mamma non sono morti in un incidente, come le avevano fatto credere, ma nel suicidio collettivo dei membri di una setta. Quando la polizia è arrivata, nella casa c’erano solo tre cadaveri e una bambina in una culla: lei. Mentre Libby comincia a indagare su quella strana vicenda, altri personaggi entrano in scena. Lucy, violinista di strada in Costa Azzurra, decisa a tornare a Londra per fuggire da un’esistenza tormentata, e il fratello Henry. Entrambi sono stati bambini nella villa di Chelsea, entrambi sono legati a Libby, che chiamano la piccola. Ma chi di loro dice la verità su ciò che è davvero accaduto in quella casa?
Una giovane donna senza danaro.
Una grossa eredità che nasconde un segreto. Quella del suo romanzo è una trama classica, ma lei la complica mettendo in gioco molti punti di vista e narratori inaffidabili. Perché?
«La struttura è complessa, ma contrariamente a ciò che ci si aspetta da un’autrice di gialli, non è ciò da cui sono partita. Per me tutto nasce da un’immagine. Ero a Nizza in vacanza con la mia famiglia; pranzavamo in uno stabilimento balneare quando ho visto una giovane donna con i suoi figli aggirare lo sguardo del personale per andare a lavarsi di nascosto nelle docce del club. C’era un’inquietudine particolare in lei che mi ha attratto. Ho immaginato che si chiamasse Lucy, che suonasse il violino nelle strade della città per i passanti. Poi l’ho vista bambina, a Londra, scappare nel mezzo della notte da una grande casa scura. Poi sì, ho dovuto riempire i buchi della trama: avevo bisogno di qualcuno che indagasse sul mistero».
Il classico investigatore dei gialli.
«Non mi piace usare gli investigatori, non lo faccio quasi mai perché non so davvero come lavorano e non voglio procedere a tentoni. Così ho inventato Libby, questa millennial che vuole scoprire da quale mondo proviene, cosa nasconde la sua nascita. Poi mi serviva un testimone, ed ecco spuntare Henry».
È lui a svelare che i genitori, altoborghesi e benestanti, hanno finito per creare una comune nella villa di Chelsea. Le cose non sono finite affatto bene.
«Qualche anno fa i giornali scrissero di un tizio che negli anni Sessanta a Londra era diventato il guru di una sorta di pseudo religione orientale. A un certo punto scomparve, non se ne seppe più nulla. Si è scoperto che insieme ad alcuni dei suoi fedelissimi, uomini, donne e bambini si era auto segregato in una casa di Londra, senza avere praticamente nessun contatto con l’esterno per quarant’anni.
Non è un caso che questo tipo di storia, che spesso finisce in tragedia, sia diventata un topos letterario e cinematografico. Il fatto che questi piccoli, buffi ometti possano acquisire così tanta influenza sugli altri da costringerli a far loro da schiavi, a sacrificare la loro vita, ha qualcosa di estremamente affascinante per uno scrittore».
Gli unici che paiono immuni alla manipolazione sono i bambini, i veri eroi della storia.
«Il rapporto di fiducia del bambino nei confronti dell’adulto che dovrebbe amarlo e proteggerlo si spezza quando capisce che quell’adulto ha delegato tutto il suo potere a qualcun altro. Ho letto più di un memoir di uomini e donne cresciuti all’interno di una setta: la precoce consapevolezza di doversi salvare da soli è un elemento costante».
Per mettersi in salvo talvolta si compiono azioni non esemplari.
«Non giudico mai i miei personaggi, lascio loro il beneficio del dubbio. Da lettrice, è un tratto che apprezzo molto nei mistery».
A proposito di mistery. Si sente erede della grande tradizione inglese?
«Non saprei. Non sono andata all’università, non ho avuto un’educazione letteraria. Quando ero bambina a casa mia non c’erano libri; per leggere si andava alla biblioteca di quartiere. Lì ho scoperto Il giardino segreto, le Cronache di Narnia , poi Agatha Christie. L’ho letta tutta, quando ero ragazzina: la divisione tra le classi sociali, il suo modo di tratteggiare i personaggi di sicuro hanno avuto un’influenza su di me. Del resto, non penso che uno scrittore inglese possa sfuggire al nostro modo di vivere la comunità e i suoi contrasti. Qui è tutto alla luce del sole come ai tempi di Miss Marple e Poirot: la vita dei privilegiati e quella di chi non lo è».
Ai suoi romanzi, che sono gialli senza sangue, si applica spesso l’etichetta "thriller psicologico". Il genere è molto popolare di questi tempi. Si è chiesta perché?
«La vita di molti di noi è tutto sommato quieta e pacifica; il thriller psicologico ci permette di mettere in scena in modo vicario e dunque innocuo il worst case , lo scenario peggiore possibile, l’incubo che questa nostra sicurezza sia improvvisamente minacciata. La trama del libro ci porta nella crisi ma ci fa anche trovare la soluzione prima della parola fine: il mistero sarà risolto, il colpevole sarà punito, tutte le domande troveranno una risposta. Cosa c’è di meglio per una società ossessionata dal controllo?».