Da coppia ad azienda. Come vi siete conosciuti, lei e suo marito?
«Che vuole, siamo cresciuti insieme. La sua era una famiglia di albergatori da quattro generazioni, la mia di commercianti di tessuti, biancheria, forniture alberghiere e abbigliamento. Alfonso aveva due passioni: la cucina e la pittura.
Amava cucinare con me e per me.
La notte rubava le chiavi della cucina e, all’insaputa di tutti, faceva piatti speciali. Io mangiavo.
Poi ci toccava ripulire forni e stoviglie con attenzione certosina poiché ai genitori di Alfonso non sfuggiva la minima traccia di disordine».
Quanti anni avevate?
«Quando abbiamo cominciato a intrufolarci in cucina lui una decina, io otto. Questo rito è andato avanti per altri dieci anni. La sua scommessa, che non potrò mai dimenticare e che ancora adesso mi fa ridere, era riuscire a fare uno speciale soufflé al cioccolato. È stata l’ossessione della sua adolescenza, perché la ricetta che aveva elaborato gli sembrava perfetta, ma quando lo tirava fuori dal forno il soufflé si afflosciava. Là dentro siamo diventati adulti.
Presto l’amicizia è sfociata nell’amore e il gioco nella passione».
La cucina si è trasformata anche in qualcos’altro?
«Ma che dice? Erano tempi di grande pudore. Qualche bacio, niente di più. Ma con il disappunto delle nostre rispettive famiglie, decidemmo di sposarci molto presto. Io ero minorenne, avevo appena vent’anni, ho dovuto elemosinare la firma del mio papà per avere la dispensa dal Comune.
Mio padre non voleva assolutamente concedermi il consenso. Diceva che eravamo troppo giovani e che avremmo rovinato tre famiglie in un colpo solo».
Lei è diventata una regina della sala, forse la "direttrice" più famosa d’Italia. A chi si ispira, dove è andata a lezione?
«Ho imparato dalla mia terra e scavando nella storia del mio cognome: Adario. Sono nata in un piccolo meraviglioso villaggio del comune di Massa Lubrense: Acquara. Protagonista di un’infanzia tra colline, fiori e libertà. Sono cresciuta in una famiglia numerosa di sei donne e un maschio. Io ero la sesta figlia e stavamo tutti in una antica casa con mia nonna, il nonno emigrato in America ci spediva con la nave giochi e cibo. Abbiamo imparato fin da bambine a condividere tutto, eravamo felici con poco. La nostra casa era sempre aperta, la nostra tavola da pranzo sempre imbandita per parenti, amici e gente del paese che non possedeva nulla, soprattutto ragazzini. Sono ricordi indelebili, e insegnamenti di umiltà che ho cercato di trasferire pure ai miei figli».
Quanti sono i suoi figli?
«Due. Ernesto, 51 anni, laureato in Economia e commercio all’università di Napoli Federico II, master in economia a Londra, ha lavorato alla Price WaterHouse come revisore di bilancio. Quando gli hanno rinnovato il contratto, prospettandogli un incarico importante, lui ha rifiutato ed è voluto rientrare a casa. Mio marito ed io credevamo di avere un commercialista in famiglia, che ci avrebbe guardato i conti, ma invece ci ha pregato di entrare in cucina si è sottoposto a tutti i sacrifici, alle regole di una brigata che lo scansava, ma non ha mollato. Ormai è in cucina da ventidue anni e ha preso il timone del ristorante. Non è stato facile per lui, con un papà molto severo come Alfonso. Mario, l’altro figlio, ha 49 anni, dopo il liceo ha fatto la scuola alberghiera a Ginevra, parla sei lingue tra cui il russo. Quasi in contemporanea con il fratello, è voluto rientrare anche lui».
Lei, dunque, è l’unica a non cucinare.
«Non cucino, perché come si può comprendere io sono stata cucinata da Alfonso. Scherzo, ho sempre mangiato e apprezzato.
Poi, in casa, chi arriva prima si mette ai fornelli».
Come veste per fare il suo lavoro?
«Abiti lunghi, eleganti ma non vistosi. Mai dare l’impressione ai clienti di essere più pretenziosi di loro nell’abbigliamento, mai metterli in imbarazzo. Prediligo il bianco con inserti d’oro e il rosso chiaro. Non porto mai gioielli».
Ha scelto lei i colori delle pareti, delle sedie, delle tovaglie?
«Abbiamo un interior designer, grande amico e profondo conoscitore della nostra storia, della cultura del territorio. Con lui si decide l’arredamento e i colori delle sale e delle camere.
Lo spunto principale ci viene dai fiori dei giardini lungo la costiera.
Ortensie, ciclamini, bouganville».
Quanto tempo dedica alle conversazioni con i commensali?
«Parlo con tutti i clienti, starei male se non lo facessi. Sono la padrona di casa che aspetta e accoglie gli ospiti, resto qui fino a tarda ora per salutare tutti. Mi capita spesso di finire alle tre del mattino».
Considera la discrezione il primo dei valori da rispettare?
«Con i clienti si crea un rapporto di complicità, ma ho stabilito confini invalicabili. Nessuna confidenza, per esempio.
Non bisogna mai andare oltre, perché magari in un momento di abbandono psicologico, il cliente si lascia andare a racconti personali e privati che non riferirebbe in altre circostanze. La mia regola è semplice: mai lasciarsi coinvolgere. L’educazione è la base del mio mestiere".
A proposito, sappiamo ancora stare a tavola?
«Il garbo si insegna in famiglia e non ha epoca, qualunque sia il ceto sociale da cui si proviene. Ho imparato molto da marinai e contadini».
Qual è il suo giudizio sulla cucina spettacolo, sui talent televisivi?
«Cucinare è un atto etico. Quando si trasmette con cultura e passione è molto positivo. Ma quando si tratta di esaltare soltanto di prodotti della grande industria, diventa un veicolo pubblicitario e basta».
A quale arti sta si possono paragonare il genio di un cuoco e le sue opere?
«A un pittore impressionista. Mi viene in mente Claude Monet, ma anche l’americana Mary Cassat».
E lei a chi si sente vicina?
«Guardi, volevo fare la psicologa infantile per aiutare i bambini con problemi di comportamento, ma ho abbandonato l’università e sono diventata imprenditrice. Oggi sono nonna di quattro nipoti, il quinto è in arrivo. Ma soprattutto vivo con un uomo che non ho mai smesso di amare. Ecco perché rifarei tutto daccapo».
A suo marito è poi riuscito il famoso soufflé?
«Quello? Che io sappia non ci ha più riprovato».