Corriere della Sera, 22 agosto 2021
Nella casetta di avvistamento degli orsi
A un’ora e un quarto di macchina da Trieste, c’è l’orso. Non uno zoo; la Slovenia.
Passato il confine, finisce un Paese bellissimo ma cementificato (il nostro) e comincia un Paese selvaggio, coperto al 60 per cento da foreste, dove vive una delle più grandi comunità di orsi d’Europa. Almeno 1.200 orsi, che crescono ogni anno di 65 unità. Qualcuno viene mandato in Francia e Spagna, a ripopolare i Pirenei. Purtroppo 40 vengono abbattuti dai cacciatori. Dalla Germania e dalla Russia si prenotano con mesi di anticipo, disposti a pagare diecimila euro o più a preda. Lo stesso Tito – padre croato e madre slovena – era un celebre cacciatore. I turisti italiani invece arrivano non per uccidere gli orsi, ma per vederli. Bear watching.
Sulla strada c’è Postumia, con le più belle grotte del mondo. Tra la prima e la seconda guerra mondiale, qui era Italia. Nelle grotte si tenevano concerti, venne Mascagni a dirigere la Cavalleria Rusticana. La guida porta lo stesso nome del nonno, del padre e del figlio: Franc Dekleva. Quattro generazioni della stessa famiglia, ogni Franc nato nella stessa casa, allo stesso indirizzo, ma in un Paese diverso: nonno Franc nell’Impero austroungarico, papà Franc in Italia, il nostro Franc in Jugoslavia, suo figlio Franc in Slovenia.
Poi la strada prosegue sino al villaggio di Juršce, che sarebbe San Giorgio. La guida qui si chiama Jieronim, Geronimo, e non conosce una parola di nessuna lingua occidentale. Fa da interprete Stefan, l’autista dell’agenzia, che parla bene inglese (il titolare, Andrej Vatovec, parla pure italiano). Geronimo avrà settant’anni, ha passato la vita in mezzo agli orsi, e porta il fucile a tracolla perché, spiega, con loro non si sa mai. Un bambino chiede se l’orso è cattivo. Geronimo un po’ si secca. È contrario all’umanizzazione degli animali. L’orso non è né buono né cattivo; è un orso. Milioni di anni di predazione gli hanno insegnato (come a tutti gli animali) a evitare l’uomo. Attacca solo quando si sente in pericolo, o per difendere la prole, cui è molto legato. La settimana scorsa ad esempio un runner, insomma uno che correva sulle montagne slovene, si è frapposto involontariamente tra un’orsa e i suoi orsacchiotti (Dante avrebbe scritto «orsatti»). L’orsa si è arrabbiata moltissimo e ha tentato di sbranare l’intruso. Ma se un orso ti attacca, come reagire?
Geronimo solleva il fucile: se un orso ti attacca, spara. Ma se non si ha il fucile? In tal caso ci sono due tattiche. La più nota: fingersi morti, non guardarlo negli occhi, mostrarsi inoffensivi. In alternativa: fare un rumore d’inferno, nella speranza di spaventare mamma orsa. Il runner ha scelto, forse d’istinto, la seconda soluzione. Gli è andata bene: graffi, ferite, ricovero in ospedale; ma nulla di drammatico. Noi non correremo alcun rischio. Geronimo ci deposita con la jeep accanto alla casetta per l’avvistamento. Si sale una scala, ci si siede su una panca, si spalanca la finestrella (ognuno ha la sua, massimo quattro persone), e si aspetta. L’orso prima o poi arriverà. Ovviamente, nessuno sa quando.
Questa è la vera impresa: rimanere almeno due ore in assoluto silenzio. «Tiho!» si è raccomandato Geronimo; zitti! L’orso infatti ci vede poco, ma ha un udito finissimo: basta un bisbiglio per indurlo a fuggire, anzi a non venire proprio. Il cellulare non prende. Portarsi un libro è inutile: ogni cinque secondi l’istinto ti spinge ad alzare lo sguardo, per vedere se l’orso è arrivato.
Passano, nell’ordine: due volpi, dalla coda bellissima; un cervo; un gregge di pecore, scortato da quattro cani pastori, numero minimo per scoraggiare un orso in crisi di fame. Poi, dopo il tramonto, alla luce del crepuscolo (di giorno d’estate ha troppo caldo, mentre di notte è attivissimo), ecco finalmente l’orso. Enorme. Il capofamiglia infatti va sempre avanti per primo. Scosta l’asse che protegge un piccolo pozzo, e comincia a mangiare la carne che Geronimo ha nascosto lì dentro. L’orso non viene nutrito direttamente: si impigrirebbe troppo, e rischierebbe di associare l’idea del cibo a quella dell’uomo. Deve fare un minimo sforzo; in questo caso, svellere il legno che nasconde la vista del pasto. Poi l’orso si alza sulle zampe, per la gioia degli appassionati di fotografia, e scuote un trabiccolo dov’è nascosta la frutta secca. Poi sparisce.
Dopo mezz’ora arriva l’orsa. Più piccola. Una cicatrice dietro un’orecchia. Ma l’orsa non si fida. Ha sentito un rumore innaturale: il clic della macchina fotografica. Quindi non mangia. Va e viene. Si aggira nervosa. Poi riscompare nella foresta. Per ultimo viene il figlio. Non un cucciolo; un orso che si direbbe adolescente. Purtroppo però arriva anche Geronimo con la jeep, mettendolo in rapida fuga. Ormai è buio: tempo di scendere dalla capanna, prima che non si veda più nulla, esponendosi a eventuali agguati. Geronimo ci mostra le trappole con cui i suoi antenati tenevano a bada i predatori; ma ormai, almeno qui, l’uomo e l’orso hanno imparato a convivere.