La Lettura, 21 agosto 2021
Sembrano pagine invece sono un bosco
Non è un saggio e neppure una guida per un «quasi scienziato», come si definisce lo stesso autore. Non è neppure un diario e men che meno è un romanzo. A patto di tralasciare qualsiasi definizione, il libro che si ha tra le mani è infatti esattamente quello che dichiara il titolo stesso: L’albero. Lo ha scritto John Fowles nel 1978 e Aboca – raffinata casa editrice toscana attenta alla natura – lo pubblica per la prima volta in Italia con la traduzione di Miriam Falconetti ne «Il bosco degli scrittori», collana che fino a ora ha proposto romanzi dei migliori autori italiani contemporanei.
Il libro, si diceva. Meglio: l’albero. John Fowles, il narratore inglese che pochi anni prima aveva sparigliato il mondo della narrativa con La donna del tenente francese (1969), firma nel 1979 qualcosa di veramente unico. Una sorta di camminata che lo porta dalla sua infanzia – e nel giardino che suo padre «aveva stipato di piante» capaci di dare «i frutti più squisiti che io abbia mai assaggiato» – a una riflessione sulla natura e sulla scrittura. È inutile, pare dire Fowles, che si provi a distorcere la bellezza di un fogliame, piegandolo e vivisezionandolo per capirlo: esso sfugge nella sua complessità. L’albero, pare dire, non è solo quello che vediamo frontalmente: ci sono le radici, i rami che la vista non coglie, il lavorio degli uccelli, la natura che lo determina. Come per la scrittura, «gli alberi distorcono il tempo, o piuttosto creano una varietà di tempi». Entrare nei boschi è «entrare in un’altra dimensione».
È curioso notare che Luigi Meneghello, l’autore di Libera nos a Malo (Feltrinelli, 1963), scriva nel 1964 (Le carte, volume I, Rizzoli): «Questo paesaggio, qui davanti, amichevole, reale: non determina ciò che penso? (…) Conclusione: si pensa con gli occhi e gli altri organi del senso». È proprio la propensione che Fowles spiega e dispiega in queste pagine, tenendo ben presente i mutamenti storici: Prima e Seconda guerra mondiale, ruolo della scienza, della filosofia e della cultura. Negli anni in cui l’autore inglese cresce, si accorge di come suo padre voglia tornare – dopo lo scampato pericolo nazista – in città e al suo giardino perché era «una sorta di rifugio poetico (…), un luogo che poteva controllare». Fowles invece, che si è inoltrato fin da adolescente tra le campagne disabitate del Devon, vede altro: «I miei “frutteti” furono i boschi dimenticati e sempre più disertati dell’Inghilterra occidentale e, successivamente, della Francia». Una natura ribelle, come per la sua scrittura e per quello che diventerà il suo giardino «della casa in cui vivo tuttora: disordinato, trascurato, ingestibile». Perché è in quello che l’uomo definisce caos – e che Freud individua come forma che la società tende a reprimere – che avviene il miracolo: l’albero dialoga con i volatili.
Certa scienza è cieca. È quella che vuole «fornire etichette specifiche (…) e ci allontana di un passo dalla realtà spingendoci verso l’antropocentrismo», scrive Fowles. Che porta così all’estremo ciò che, agli inizi del Novecento, aveva scritto Fernando Pessoa col suo eteronimo Alberto Caeiro: «Guardo, e le cose esistono/ Penso ed esisto solo io» (Le poesie di Alberto Caeiro, Passigli, 2002). Questa filosofia panica – che nasce con l’uomo e che con lui vive – è l’unico modo per avere una prospettiva globale. «Il bosco autentico, come qualsiasi luogo autentico, è la somma di tutti i suoi fenomeni», scrive Fowles. Fenomeni che vanno «ben oltre la capacità di calcolo della scienza» e che «appartengono a noi, non alla realtà». Anche voler appiccicare nuovi nomi e nuove forme per incasellare la realtà «è la triste eredità che ci ha lasciato la scienza vittoriana, con la sua ossessione così tipica per le macchine». Discorso attuale anche questo, se si pensa alle polemiche che impegnano gli intellettuali sull’uso dello schwa, il simbolo citato sempre più spesso nel dibattito per una lingua italiana più inclusiva. Sono tentativi «selettivi» per ingabbiare la realtà.
Fowles va ben oltre, dice che «la chiave della mia letteratura, sta nel mio rapporto con la natura. (…) Il nostro errore sta nel supporre che la natura intrinsecamente limitata del mondo scientifico corrisponda alla natura della nostra esperienza quotidiana». Del resto anche il poeta e critico Sergio Solmi ammoniva qualche anno fa: «Il futuro è dei robot/ Di sangue o di ferro» (Poesie complete, Adelphi, 1974).
Bisogna tornare all’«ultraumanità», dice Fowles. Di tutto ciò che è «fuori e oltre noi», spiega l’autore. Altrimenti l’essere umano è una «termite pensante» e non «l’uomo verde». In questo libro clamoroso, la logica conseguenza è sotto gli occhi di tutti: «L’errore più stupido di tutti gli stupidi errori dell’architettura del XX secolo è stato dimenticare, nelle pianificazioni urbanistiche più grandiose, questo modello antico», quella che rendeva i paesi affini ai boschi. «Città geometriche e lineari fanno persone geometriche e lineari; le città bosco fanno essere umani». E permettono così l’irruzione dell’indicibile.