La Lettura, 21 agosto 2021
Storia dell’amicizia tra Camus e Chiaromonte
Tra le molte cose belle che Renata Colorni ha affidato alle mie cure – nell’affettuoso passaggio di consegne alla direzione dei Meridiani Mondadori – un posto speciale occupa il volume delle opere di Nicola Chiaromonte. Se tutto va bene uscirà tra qualche mese, a cinquant’anni dalla morte, giusto in tempo per ricordare a chi se ne fosse dimenticato uno dei più influenti intellettuali europei del XX secolo. Renata ha avuto la buona idea di mettere una così delicata curatela nelle mani di Raffaele Manica, veterano dei Meridiani, saggista raffinato, chiaromontiano di lungo corso. E lasciatemi dire (lo so, sono di parte) che il lavoro è stato svolto con la passione, l’acribia e l’eleganza necessari all’impresa.
Non è mica facile parlare di Chiaromonte, e ancora più arduo collocarlo. Chi era? Che mestiere faceva? Dove viveva? Di che campava? Quale posto occupava nella cosiddetta «intellighenzia»? Che fine hanno fatto le sue opere? Perché uno scrittore di tale levatura è scomparso dai radar della cultura cui ha fornito un contributo indispensabile? C’è chi lo apprezza, chi lo cita, chi addirittura lo venera (penso al compianto Enzo Bettiza ma anche a Filippo La Porta, Pierluigi Battista, Matteo Marchesini, Claudio Giunta), chi se ne dice erede e interprete, ma ciò non di meno Chiaromonte rimane un’ombra, un mistero rimosso. La sorte dei poligrafi e degli eclettici non è mai facile. E neanche quella degli anticomunisti di sinistra. Sembrano destinati a seppellirsi con le proprie mani in una festa di auto-sabotaggio. Chiaromonte appartiene alla falange di eretici – da un punto di vista ideologico tanto inafferrabili, e persino tra loro così diversi – che hanno rappresentato una sorta di avanguardia libertaria in un mondo dominato dalle due parrocchie egemoni: i cattolici e i comunisti. I nomi sono quelli di prammatica: Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Ignazio Silone, Altiero Spinelli, insomma la stirpe di blasfemi che si esprimeva dalle colonne del «Mondo» e di «Tempo presente».
Di origini lucane, di vocazione europeista, poliglotta e globetrotter per cause di forza maggiore (la persecuzione fascista lo spinge all’esilio prima nell’amata Parigi poi nei faticosi Stati Uniti), influenzato dalla cultura classica (soprattutto quella greca), con il pallino per il teatro, Chiaromonte ha interpretato il suo ruolo di scrittore nel modo più vasto possibile. Non c’era suggestione letteraria, sociologica, politica e filosofica che non lo avvincesse. In un certo senso, la sua investigazione proteiforme sui massimi sistemi può ricordare quella di un mostro sacro come Isaiah Berlin: la stessa vastità di orizzonti, la lucida sobrietà, la sfiducia nei confronti delle filosofie sistematiche, l’umanismo laico e pertinace, l’insofferenza al settarismo ideologico professato dai mandarini di professione, la stessa venerazione per Tolstoj.
Ammirato da intellettuali del calibro di Hannah Arendt, Gustaw Herling, Mary McCarthy, Edmund Wilson, Raymond Aron, per non dire degli amici italiani (Andrea Caffi e Alberto Moravia su tutti), il suo approccio scientifico era di chiara marca socratica: la verità è interessante proprio perché è il risultato (peraltro effimero) di un processo maieutico costellato di dubbi.
Se mi permetto di parlarne in questa sede – da profano – è per via dell’uscita in questi giorni di una preziosa raccolta di lettere che Nicola Chiaromonte e Albert Camus si scambiarono dal 1945 al 1959, corrispondenza interrotta dalla morte prematura del più giovane dei due nel 1960. Il libro, uscito in Francia da Gallimard un paio di anni fa, ben annotato da Samantha Novello, è stato appena tradotto da Alberto Folin per Neri Pozza con il titolo In lotta contro il destino.
«Albert Camus», ricorda Chiaromonte, «apparve nella mia vita nell’aprile del 1941, a Algeri, dove ero arrivato profugo di Francia. L’avevo conosciuto presto, perché a Algeri era celebre». I due dovettero aspettare la fine della guerra per dare seguito alla loro amicizia fatta di fugaci incontri, mille attestati di vicendevole stima, saltuarie collaborazioni e soprattutto della novantina di lettere qui riunite.
Non so se a causa dell’implicito squilibrio tra i corrispondenti (la fama planetaria induce Camus a un contegno cauto) ma le missive davvero interessanti sono quelle di Chiaromonte. Si vede che Camus, soprattutto nelle faccende che riguardano la sua opera e le famose polemiche che lo investono all’inizio degli anni Cinquanta, si protegge dietro a una fitta coltre di reticenza. Di fatto l’epistolario è scandito, e per meglio dire alimentato, dall’ammirazione di Chiaromonte per Camus, e dalla necessità del primo di esprimerla al secondo, e allo stesso tempo, di chiarirla a sé stesso. La sintonia – non solo morale ma, oserei dire, emotiva – che lo lega a uno dei massimi scrittori del suo tempo è per Chiaromonte motivo di orgoglio e di incoraggiamento. È chiaro che gli scritti di Camus a lui più congeniali sono quelli direttamente implicati con l’idea di giustizia e di castigo. Non a caso Chiaromonte considera La caduta l’apice artistico raggiunto dall’amico, il che può apparire strano visto che si tratta del romanzo più controverso di Camus (a tal proposito, segnalo volentieri un famoso saggio di René Girard).
Ma basta conoscere anche sommariamente le idee di Chiaromonte per rendersi conto che non c’è nulla che faccia più al caso suo di un romanzo che – in forma dialettica, certo – mette in discussione il valore della giustizia umana. Del resto, si tratta di un vecchio classico di Camus fin dai tempi del pamphlet contro la pena di morte, per non parlare del processo-burla messo in scena nella seconda parte dello Straniero. Pare quasi che Camus, attraverso l’accorato monologo dell’avvocato Clamence, voglia dare sostanza narrativa alla massima che Tolstoj mette in bocca a un personaggio di Guerra e pace: «Dove si giudica non c’è giustizia». Ed è precisamente questo a colpire Chiaromonte, e ad accenderlo. Nel pezzo che dedica al romanzo nel novembre del ’57 in «Tempo presente» (lo trovate in appendice) scrive senza mezzi termini: «In questo consiste la sofferenza di Clamence. In questo consiste anche la sua rivolta. Che è la rivolta dell’individuo, di quell’individuo: il personaggio, l’autore, ma anche, letteralmente, un individuo qualunque, purché cosciente, contro ogni forma di sufficienza e di soddisfazione morale: quindi contro ogni e qualsiasi giudizio. In nome non già dell’innocenza, che è impossibile, ma appunto della colpevolezza dell’individuo: dell’impossibilità in cui egli è di giustificarsi se non dietro qualche maschera ipocrita. Chi si difende s’accusa. E chi s’accusa non guadagna nulla, tranne di non morire senza aver detto la verità». Come si vede, lo spazio morale abitato da Chiaromonte e Camus è pressapoco il medesimo, dominato com’è dalla straziante consapevolezza della fallibilità umana.
Date tali premesse, non stupiamoci se nel corso degli anni emerge (anche se Camus la lascia solo trasparire) la comune avversione per Jean-Paul Sartre e i suoi accoliti. Il settarismo, l’indulgenza per Stalin, la giustificazione dell’omicidio politico, la violenza di Stato in nome di una causa superiore fa orrore ai due amici. «In tutta confidenza», scrive Chiaromonte (quando peraltro i rapporti con Sartre sono ancora cordiali), «ho trovato L’Être et le Néant formidabile e deludente – e sono rimasto piuttosto amareggiato dall’Introduzione a Temps Moderns: come può un uomo tanto intelligente e accorto come Sartre ridursi a ripetere in un linguaggio più difficile (ma non raffinatissimo comunque) quelle storie di letteratura “borghese” e “proletaria” che non convincevano nessuno già nel 1930 – e che si potevano tollerare solo nella forma del paradosso metafisico che riusciva a dar loro Malraux, d’altronde non senza una certa fatica?».
L’apice della delusione viene raggiunto quando Sartre incarica il solerte Francis Jeanson di stroncare L’uomo in rivolta, un pezzo che darà il «la» a uno dei più cruenti scontri ideologici che la Francia abbia conosciuto dai tempi della querelle des Anciens et des Modernes. Lo sdegno di Chiaromonte nei confronti di Sartre è implacabile: «Sono costernato dalla bassezza alla quale è stato capace di scendere Sartre nella sua risposta. Costernato, ma non sorpreso. Da tempo sospettavo che quest’uomo straordinario concepisse il ruolo di caposcuola come una forma di gangsterismo (intellettuale)». La sua collera arriva al punto da paragonare il libro di Sartre su Jean Genet niente meno che al Mein Kampf. «Un simile pasticcio non ha uguali; è l’esatto contrario di ciò che fino ad ora abbiamo concepito come la missione dell’intellettuale: non la creazione di un ordine, ma la proliferazione di una giungla. È una specie di Mein Kampf — e lo dico seriamente. È la volontà di confusione spinta al di là di ogni limite – è l’ambizione di asservire le menti alla confusione. Soltanto che, con Genet come bandiera, questo satanismo, nonostante il suo peso di carta, resta penosamente comico».
Del resto, non è poi così strano né che Chiaromonte si esprima con tale veemenza né che Camus non faccia una piega. Oggi è quasi impossibile immaginare la solitudine in cui entrambi vivevano. E il fatto che la storia si sia incaricata di dare ragione sia all’uno che all’altro, e a dispetto di nemici così potenti, rende le loro parole, rilette a distanza di più di mezzo secolo, solo più amare.