La Lettura, 21 agosto 2021
Il Sud Italia resterà deserto
Migliaia e migliaia di pagine. Un’inondazione di tabelle, cifre, statistiche. L’inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia degli anni 1951-1952 in verità non è granché né in relazione all’individuazione delle vere cause della miseria né in ordine ai rimedi proposti per fare fronte a una situazione peggio che critica, tutti o quasi giocati sul terreno assistenziale. Ma getta una luce illuminante e livida sullo stato del Paese e ne focalizza l’elemento caratterizzante che non verrà mai meno: il distacco profondissimo tra Centro-nord e Mezzogiorno. Le famiglie tra «misere» e «indigenti» raggiungono il 5,8% del totale delle famiglie al Nord e il 15,6% al Centro, per schizzare al 45,4% nelle Isole e spingersi fino al 51,2% al Sud. Il gradiente della miseria è così accentuato (che una famiglia su due nel Mezzogiorno fosse al di sotto, anche molto al di sotto, di uno standard di vita appena appena accettabile deve essere apparso abnorme anche a occhi avvezzi ai panorami sociali ed economici di allora) da fare sorgere il sospetto che non dello stesso Paese si tratti ma di due molto lontani tra di loro.
Ecco, per capire quel che sarebbe successo proprio da quel momento nei trasferimenti di residenza tra le regioni italiane – quei trasferimenti che più realisticamente si definiscono come «migrazioni interne», ben più importanti, diversamente da quel che si è portati a pensare, dei movimenti migratori verso l’estero che avevano caratterizzato i decenni a cavallo di XIX e XX secolo della popolazione italiana – è giusto da qui che occorre partire: dalla profondamente diseguale distribuzione territoriale della miseria. E da un altro elemento ancora, senz’altro meno appariscente e drammatico ma altrettanto efficace nell’imprimere a quei trasferimenti, a quelle migrazioni, la sempre più consolidata e caratterizzante direttrice sud-nord: il dualismo demografico che si andava proprio allora profilando tra le due grandi ripartizioni territoriali del Centro-nord da un lato e del Mezzogiorno dall’altro.
Era infatti successo che agli inizi degli anni Cinquanta si fosse finalmente dimezzata la natalità rispetto ai valori abnormi di 38 nascite annue per mille abitanti del decennio 1861-1870, il primo dell’Italia unita (oggi in Italia non si arriva a 7 nascite annue per mille abitanti). Ma mentre nel Centro-nord la contrazione aveva raggiunto punte del 70 per cento in Piemonte, Liguria e Toscana; nel Mezzogiorno non aveva superato il 40 per cento in alcuna regione, cosicché al censimento del 1951 mentre al Centro-nord si contavano 234 tra bambini e ragazzi fino a 14 anni ogni mille abitanti se ne contavano 331, ben cento di più, nel Mezzogiorno. Il divario, che si prolunga fino a tutti i trent’anni d’età, segnala nel Mezzogiorno un surplus di abitanti nelle età giovanili e lavorative che proprio l’accentuata miseria, l’altissimo indice di ruralità dell’economia e un mercato del lavoro praticamente inesistente contribuiscono a porre in una prospettiva poco meno che drammatica.
La contraddizione tra il lavoro che non c’è mentre di forza-lavoro ce n’è fin troppa rappresenterà la spinta, travolgente nei vent’anni tra il 1951 e il 1970, ma mai esaurita nel mezzo secolo successivo fino ai giorni nostri, che porterà tanti italiani a lasciare la residenza nelle regioni meridionali per acquisirne una, stabile, in quelle del Centro e ancora più del Nord.
Naturalmente ci voleva un terzo elemento perché le migrazioni interne esplodessero fino a caratterizzare la storia del Paese: quel miracolo economico, quel boom, come dall’italica immaginazione subito ribattezzato, che si può datare dalla seconda metà dei Cinquanta fin quasi alla fine dei Settanta. Miracolo industriale e manifatturiero che letteralmente divampa nel celeberrimo triangolo Torino-Milano-Genova, si estende al Nord-est e al Centro e finirà per irradiarsi con i suoi effetti in senso lato modernizzanti anche alle estreme propaggini italiane. Ed è infatti qui, alla congiunzione di miracolo economico e migrazioni lungo la direttrice sud-nord, che il sentimento collettivo si popola di immagini – cartoline – indelebili: le figurine stente degli immigrati aggrappati alle scassate valigie tenute da corde e cinghie risucchiate sotto le volte di vetro e ferro della stazione centrale di Milano; mansarde e soffitte buie e disagevoli popolate allo spasimo, fin nel cuore di Torino, da famiglie d’immigrati passati dall’aperto al chiuso, dal sole alle nebbie nel giro di giorni. C’è retorica e realtà. Anche il miracolo ha i suoi prezzi, è fuori discussione. In più di due milioni si contano non già, attenzione, i trasferimenti verso il Nord-ovest, giacché i trasferimenti vanno e vengono, procedono in un senso ma anche nell’altro, perché se in tanti vanno in molti ritornano. No, più di due milioni rappresentano il saldo, negli anni del boom, tra quanti vanno e quanti tornano: due milioni e passa di persone che finiscono per mancare nel Mezzogiorno e per aggiungersi nel Nord-ovest. Definitivamente.
Ma il quadro sembra fermarsi lì. Concludersi in quegli anni, in quelle immagini, in quelle cifre. Mentre i trasferimenti di residenza, dopo il boom degli anni del boom, continuano. Non assumeranno più quell’intensità eroica e tragica, si faranno sottili e ininterrotti, si confonderanno tra gli altri rivoli di una demografia stanca, trasformandosi in uno stillicidio che nessuno guarda più, noto e indifferente al tempo stesso. Ma la storia che raccontano è la storia dell’Italia. Meglio ancora, è una storia che cambia l’Italia. Cinque milioni. A tanti si possono stimare gli abitanti che nel compendio di dare (trasferimenti in uscita) e avere (trasferimenti in entrata) delle migrazioni interne hanno lasciato il Sud e le Isole per andare a incrementare gli abitanti delle altre ripartizioni territoriali.
Si dirà: sì, ma in settant’anni, dai Cinquanta del secolo scorso a oggi. Ma se pensiamo che negli ultimi anni in Italia i nati si aggirano attorno ai quattrocentomila l’anno si vede bene che quei cinque milioni equivalgono a 12-13 anni di nascite odierne. È come se più di un nato su tre del Mezzogiorno fosse destinato a prendere la via del Nord. Un salasso che il Mezzogiorno sopportava abbastanza agevolmente fin quando la sua natalità sopravanzava alla grande la natalità del Centro-nord. Ma come la mettiamo oggi che i tassi di natalità vanno livellandosi?
Le serie storiche dell’Istat seguono due «regimi». Nel secondo cinquantennio del Novecento i trasferimenti di residenza tra le regioni non sono a somma zero – come invece dovrebbero essere, dal momento che quel che perdono le une acquisiscono le altre. Negli anni Duemila, con nuove regole, invece sì. Sommando, com’è indicativamente legittimo fare, si scopre che dai trasferimenti di residenza il Nord ha acquisito 3,9 milioni di abitanti e quasi 1,4 milioni il Centro; mentre il Sud ne ha persi non più di 3 e poco meno di 1 le isole. Conclusione strettamente contabile: i trasferimenti in uscita sono oltre 1,3 milioni inferiori ai trasferimenti in entrata. Ma allora quanto perde complessivamente il Mezzogiorno: qualcosa meno di 4 o più di 5 milioni di abitanti? Potremmo cavarcela salomonicamente dividendo a metà non fosse che i comuni sono – sistematicamente, per ragioni di contributi dello Stato erogati in proporzione alla popolazione – solleciti a registrare quanti arrivano ma restii a cancellare quanti si trasferiscono, cosicché si può scommettere sui 5 milioni che abbiamo fin qui detto. Di questi ha usufruito in modo particolarissimo il Nord-ovest, che ne ha guadagnati quasi 2,2 nei soli vent’anni 1952-1971.
Poi le cose sono cambiate. In due modi. Il primo. Perché l’impeto tumultuoso delle migrazioni interne s’è esaurito con il rientrare, inevitabile, dei ritmi del boom economico su più ordinari livelli – ed è stato un po’ come passare dalla tempesta alla pioggia, tant’è che nel decennio 1982-1991 il saldo migratorio interno del Nord-ovest si è fermato ad appena 85 mila unità, dopo i quasi 1,1 milioni del decennio 1962-1971. Il secondo: perché, una volta assestato il miracolo economico, le perdite migratorie del Mezzogiorno si sono assai più equilibratamente ripartite tra Nord-ovest, Nord-est e Centro, con una prevalenza di quel Nord-est che pure negli anni della crescita parossistica del Nord-ovest aveva a sua volta ceduto braccia e abitanti al suo «miracolato» confinante occidentale.
Nei diciotto anni 2002-2019 – serie Istat corrette – si affacciano delle novità. Del poco meno del milione di abitanti che hanno cambiato regione i «donatori di sangue» sono sempre gli stessi, quanti ne usufruiscono un po’ meno. Sono la Calabria e la Campania che perdono di più (rispettivamente -73 e -65 abitanti ogni mille abitanti) e l’Emilia-Romagna e il Trentino Alto Adige quelle che guadagnano di più (53 e 41 abitanti ogni mille abitanti). Si indebolisce fortemente la capacità attrattiva del Piemonte e della Liguria al Nord, del Lazio (Roma) al Centro. Mentre è l’Emilia che ha preso il posto della Lombardia nel ruolo di regione con la maggiore capacità attrattiva, verso l’interno e verso l’esterno.
Ma c’è una questione più grande, sotto i numeri. E la questione deriva dall’incontro tra la perdita del Mezzogiorno per trasferimenti dei suoi abitanti al Centro-nord, che si è sì attenuata ma che pure resta nettamente superiore alle 50 mila unità all’anno di saldo negativo, e la caduta della natalità, diventata in quell’area perfino più forte che nel resto d’Italia. Perché quest’incontro si traduce in un progressivo, lento ma inesorabile, svuotamento di abitanti del Mezzogiorno, destinato a diventare una parte sempre più piccola della popolazione italiana.
Nel 1952 gli abitanti del Mezzogiorno rappresentavano il 37,2% degli italiani; nel 2021 il 33,8%. Ma, attenzione, quella contrazione ha avuto una potente accelerazione negli ultimi vent’anni, quando la popolazione meridionale è passata dal 36% al 33,8% di quella italiana. Alla velocità di contrazione di questi ultimi due decenni il Mezzogiorno arriverebbe alla fine del secolo con appena il 25% di una popolazione italiana che sarà, per allora, per tenerci alle previsioni più favorevoli, di 40 milioni. Ma visto che il numero delle nascite annue è sempre più lontano da quello delle morti mentre il saldo migratorio complessivo (interno + esterno) lungi dal compensare, com’è nelle altre ripartizioni territoriali, aggrava il divario nascite-morti, le proiezioni dicono che per la fine del secolo nel Mezzogiorno potrebbe risiedere non più del 20% della popolazione italiana, un italiano su cinque. Appena 8 milioni di abitanti su 40. Cosicché a lungo andare, complici i trasferimenti di residenza, il Mezzogiorno sarà un deserto. O quasi.