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 2021  agosto 21 Sabato calendario

Nikita Krusciov ricordato dalla nipote Nina

Nina Krusciova sta scrivendo un libro sul nonno. «Un’esperienza assolutamente orribile», dice a «la Lettura» seduta davanti a un espresso in un ristorante di New York. Suo nonno è Nikita Krusciov, morto l’11 settembre 1971, ex primo segretario del Partito comunista sovietico, successore di Stalin. Tecnicamente, è il suo bisnonno. Ma dopo la morte del figlio Leonid, Nikita «adottò» la sua bambina, Yulia, la madre di Nina. «Portare il suo nome non è mai stato semplice». In Russia alcuni lo vedono ancora come un despota, altri come un riformista. In America negli anni Sessanta i bambini si rintanavano sotto i banchi temendo i missili dell’Uragano Nikita e Stanley Kubrick lo rappresentava nel Dottor Stranamore.
Krusciov, fedelissimo di Stalin per oltre vent’anni, fu il primo leader a denunciare il terrore e il totalitarismo – in mezzo a caotiche industrializzazioni, carestie, guerre, arresti, esecuzioni – che uccisero quasi trenta milioni di persone; secondo alcune stime il doppio. In seguito al «pensionamento forzato» nel 1964, il leader sovietico si ritirò a Petrovo Dalnee, un’ora dal Cremlino. È qui che Nina lo ricorda, «nella piccola casa con un grande terreno» che gli era stata concessa dal governo e «che subito trasformò in una fattoria, con campi di pomodori, arnie e zucche. Credo che all’inizio sia stato difficile, ma si abituò. Mia madre ricordava che con il tempo a disposizione, tanto, aveva sviluppato una tecnica per coltivare i migliori pomodori della zona, di un colore rosso intenso. “Sono grossi come il pugno di un gigante”, si vantava. Ogni mattina correva ad ammirarli, così belli che non riusciva a raccoglierli. Quell’anno il gelo arrivò prima, a settembre, e una mattina l’ex leader sovietico si svegliò e trovò i pomodori anneriti e rovinati. Mia madre diceva che ne fu devastato, forse più del giorno in cui fu costretto a lasciare il Cremlino». 

Perché a cinquant’anni dalla sua morte sta scrivendo questo libro? 
«Me l’ha chiesto un editore russo, ma mi sono pentita di avere accettato. Sono una parente; penso che abbia fatto alcune cose meravigliose e azioni che mi fanno inorridire. Per esempio il discorso del 1946 contro i nazionalisti ucraini, che pure non erano eroi, così anti-sovietici da avere collaborato con i nazisti: “So che abbiamo un sistema diverso adesso, con leggi più umane, ma penso che se fuciliamo o impicchiamo un po’ di persone, qui, nella piazza principale, gli altri traditori guarderanno e comprenderanno”. Lo capisco: quando Donald Rumsfeld, segretario della Difesa di George W. Bush, parlava dell’11 settembre 2001 diceva le stesse cose. Ma vorrei non averlo letto, perché qui si dimostrò un assassino. Sto cercando di guardarlo come leader politico anziché come nonno, ma ci sono fatti che non avrei voluto apprendere. È stato forse il leader più russo che la Russia abbia avuto, con tutte le contraddizioni di undici fusi orari».
Per descrivere il nonno, lei cita spesso la fiaba russa della pagnotta che rotola: gira da una parte, gira dall’altra, tutti cercano di mangiarla ma nessuno ci riesce, finché la mangia la volpe.
«Krusciov in un certo senso fu mangiato nel 1964. Ma poi scrisse l’autobiografia e, grazie ad essa, sarà Krusciov per sempre».
Che cosa spinse Krusciov a denunciare con tanta forza Stalin al XX Congresso del Pcus del 1956? 
«È la domanda al centro del mio libro. Una prima spiegazione è che Krusciov fosse come un pendolo, un pendolo che oscilla tra due estremi. È una caratteristica molto russa. Quando denunciò Stalin, lo fece fino in fondo. Eppure nello stesso anno, il 1956, spedì i carri armati in Ungheria. Non faceva mai le cose a metà. Se Lavrentij Pavlovic Berija, il capo della polizia segreta, o Georgij Maksimilianovic Malenkov – che alla morte di Stalin diventò per breve tempo leader sovietico e poi fu rimosso da Krusciov – fossero rimasti al potere, non credo che avremmo assistito alla destalinizzazione. Si sarebbero allontanati dalla brutalità, ma senza denunciare Stalin: sarebbe avvenuto come in Cina. Invece, subito dopo la morte di Stalin, Krusciov disse che bisognava pentirsi di fronte al partito e di fronte al popolo. Però non era coerente: diceva pure che Stalin era stato un grande leader del partito, perché bisognava difendere il partito dall’Occidente. È la cultura della rivoluzione. Putin ha la stessa mentalità: se non facciamo cose orribili ci domineranno».
Ci fu un momento di svolta nel rapporto tra Krusciov e Stalin?
«Fu durante la guerra. Krusciov capì che l’Unione sovietica era impreparata a difendersi: Stalin fu sorpreso quando Hitler l’attaccò. L’errore dell’Occidente è di pensare che la Russia sia un invasore, in realtà la Russia “prende” se si presenta l’opportunità, come in Crimea nel 2014, o nei Paesi Baltici nel 1940. Krusciov andava al fronte, parlava con i generali, ripeteva che bisognava rafforzare le difese; non fu mai ascoltato da Stalin. Nel 1942, dopo la sconfitta nella città ucraina di Kharkov, Stalin lo chiamò a Mosca e davanti a tutti gli svuotò la pipa sulla testa dicendo che questo, nella storia di Roma, è ciò che accade quando un generale perde una guerra. Immagino che una cosa del genere possa cambiare la prospettiva di una persona. Quando l’Ucraina fu liberata, Krusciov tornò dal fronte e riprese il suo lavoro di segretario del partito comunista, ma attraversò tutta l’Ucraina per capire che cosa era successo e ne fu addolorato. Il Paese era stato devastato dai nazisti e dai collaborazionisti. Era il granaio sovietico, ma lui continuava a scrivere a Stalin che bisognava lasciare più cibo agli ucraini. Per Stalin era un tradimento. Perciò mandò Lazar Kaganovic, l’uomo che “ripuliva i problemi”; Krusciov sparì. Molti pensarono che fosse finita per lui. Ma Kaganovic non aveva interesse a eliminarlo: Krusciov era stato il suo mentore, non è escluso che abbia scritto rapporti positivi a Stalin per giustificarlo. A quel punto erano già tutti stanchi di Stalin. Troppo sangue, troppe purghe, troppo orrore. Quando Stalin morì, il 5 marzo 1953, penso che Krusciov abbia pianto e sono certa che fosse sincero. Ma presto la storia di Stalin divenne ai suoi occhi quella di un uomo che aveva distorto il sistema sovietico: il modello leninista sarebbe stato infinitamente migliore se fosse stato meno dispotico». 
Il «rapporto segreto» di Krusciov contro Stalin (poi finito sulla stampa occidentale) fu considerato imprudente da molti, compreso il segretario del Pci Palmiro Togliatti, che avrebbero preferito una presa di distanza più morbida. Che cosa ne pensa? 
«In Italia Togliatti e in Francia Maurice Thorez, segretario del Pcf dal 1930 alla morte nel 1964, perseguivano un comunismo meno duro, ma appartenevano alla generazione di Stalin: per loro la grandezza sovietica era quella dell’Urss di Stalin. Togliatti disse che era un errore dare la colpa a un solo uomo anziché al sistema. Sulla “Pravda”, il giornale del Partito comunista sovietico, uscì un articolo in disaccordo con lui. Sosteneva che il sistema è perfetto, e che il problema è il culto dell’individuo. Togliatti era preoccupato della tenuta del comunismo in Europa occidentale, perciò da una parte ripeteva che era colpa del sistema, dall’altra che era meglio non scoprire troppe verità». 
Come spiega la contraddizione di Krusciov che nello stesso anno, il 1956, denunciò Stalin e mandò i carri armati in Ungheria? 
«Krusciov era in contraddizione con sé stesso. Voleva tutto: voleva l’adesione totale ma anche arrivarci in modo più umano. Non era possibile: un sistema ideologico assoluto non può essere umano. Se concedi delle libertà, quella mentalità smette di essere totale e crolla. Per una serie di ragioni Krusciov decise di non rimuovere gli stalinisti ungheresi. Ma, un po’ com’è successo nel 2014 con Viktor Yanukovyc in Ucraina, meno ascolti l’opposizione, più quell’opposizione diventa estrema. Ci furono casi in cui i membri del partito comunista ungherese e dei servizi di sicurezza furono appesi agli alberi delle strade e le foto spedite al Cremlino: quando invii queste informazioni al capo del partito comunista di Mosca, che cosa pensi che farà? Pensiamo a quello che ha fatto l’America dopo l’11 settembre: ha attaccato Saddam Hussein. Anche Togliatti sosteneva che le cose sarebbero peggiorate in Ungheria se non fossero intervenuti. Questa fu la prima “rivoluzione colorata”. Sappiamo come la Russia le gestisce: come una minaccia alla sicurezza. Nel capitolo del libro dedicato all’Ungheria ho dovuto spiegare ciò che accadde innanzitutto a me stessa. Non approvo né lo giustifico, ma se teniamo conto degli interessi geopolitici, non penso che Krusciov avesse altra scelta. Difese la decisione fino alla fine dei suoi giorni, ma se ne pentì. Pensava che negli anni si sarebbe trovata una via migliore, tuttavia dopo quanto è accaduto in Georgia, Ucraina e Bielorussia, sappiamo che i russi non l’hanno ancora trovata». 

Krusciov inaugurò la distensione con l’Occidente, ma poi piazzò i missili a Cuba nel 1962 e portò il mondo sull’orlo della guerra nucleare. Anche qui sembra una contraddizione. 
«Non è una vera contraddizione. Krusciov voleva aprire all’Occidente, come Putin (vedo molto Putin in Krusciov). Gli americani avevano missili in Turchia e avevano cercato di uccidere Fidel Castro, che era un nostro uomo. I russi pensavano di dover fare qualcosa. È ragionevole, in teoria, ma ovviamente lo fanno “alla maniera russa”. Krusciov non si aspettava la reazione di Kennedy. Pensava: lui ha le armi in Turchia, sul nostro confine, e noi mettiamo le armi sul suo, perché si arrabbia tanto? Per Krusciov era una questione di doppio standard. Come mi disse una volta Dick Cheney, vicepresidente con George W. Bush: “Le vostre sono armi di distruzione di massa, le nostre sono armi d’amore di massa”. (Ok, grazie Dick Cheney per avermi chiarito le idee per sempre.) Dopo la reazione di Kennedy, Krusciov si spaventò. Venne avviato un dialogo. Non ho ancora scritto questo capitolo, forse la penserò diversamente dopo, ma ho l’impressione che, per quanto sia stato pericoloso il momento, quella fu tutto sommato una lezione per l’Occidente, che da allora trattò la Russia con più attenzione e maggiore rispetto, sapendo che quei pazzi dei russi possono fare qualunque cosa. Dal punto di vista russo, fu una vittoria, perché i russi credono che questo sia l’unico modo in cui possono ottenere che l’Occidente presti attenzione a quello che hanno da dire».
Krusciov (a parte Gorbaciov, la cui sconfitta coincide con la fine dell’Urss) è l’unico leader sovietico che non muore in carica. Viene spodestato nel 1964. Che idea s’è fatta sui motivi che portarono al suo pensionamento? 
«Fu un momento molto importante, lui lo definiva “il mio più grande successo”. Ma anche Molotov, l’ex ministro degli Esteri di Stalin, e Malenkov, si erano ritirati, benché non fossero al vertice come lui. Credo che Berija nel 1953 sia stato l’ultimo ad essere rimosso in modo violento. Allora qualcuno dei leader disse a Krusciov: “Basta sangue”. Quando Krusciov fu mandato in pensione penso che tutti fossero stanchi, stanchi anche delle sue continue oscillazioni. Quella situazione aprì spazi di creatività, perché la gente pensava di poter fare delle cose, anche se in realtà non poteva. Ma era anche estenuante in un Paese come la Russia, che desidera sempre la stabilità e che non cambia sistema perché teme che quello nuovo possa essere peggiore. Krusciov continuava a ondeggiare: riformiamo l’agricoltura, anzi no; riformiamo la cultura, anzi no; siamo amici dell’America, anzi no perché c’è la crisi dei missili a Cuba. Nel 1963 disse che era necessario un cambiamento nel governo, non in stile Stalin – ammazzando tutti – ma pensionando la gente, stabilendo un limite agli anni di potere. Però chi ci voleva andare in pensione? Rimanendo al tuo posto, potevi godere di un sistema corrotto e la tua famiglia era sistemata. Ovvio che nel 1964 uno così venga spodestato. Quel che proponeva era una minaccia alla sicurezza nazionale. Fece pure arrabbiare l’esercito dicendo che spendeva troppo. Krusciov stava perdendo il controllo di quello che diceva. Come Putin. Non è culto della singola personalità, ma culto di chi detiene il potere. Apparve un trafiletto sul giornale per dire che era malato, anche se non era vero. In un certo senso, è stato un piccolo passo verso la democrazia. Era stato spodestato ma era vivo. Gorbaciov non solo rimase vivo ma si candidò. Però oggi con Putin siamo tornati al punto di partenza». 

Fu suo nonno, nel 1954, quando era a capo dell’Urss, che trasferì la Crimea dalla Repubblica sovietica russa a quella ucraina?
«Oggi si dice in Russia che fu una decisione sua; non è vero. È vero che pensava che la Crimea dovesse appartenere all’Ucraina, lo aveva detto a Stalin tempo prima, ma nel 1954 fu una decisione di altri. Lui non ne aveva il potere, era il periodo della leadership collettiva. Ma il mito è importante perché, se vuoi incolpare qualcuno, un personaggio come Krusciov, elusivo e fuori dal sistema anche quando era nel sistema, è perfetto».
Leonid Krusciov, il figlio di Nikita, era stato un giovane scapestrato, poi era diventato pilota, ma nel 1943, durante la Seconda guerra mondiale, il suo aereo fu abbattuto. Circolò una teoria complottista secondo la quale sarebbe stato un traditore filonazista; lei la smentisce in un libro e spiega che Leonid fu spinto a diventare il perfetto uomo sovietico, e dunque fu vittima di quello stesso sistema. Come vedeva tutta questa storia Nikita Krusciov?
«Pensò sempre che Leonid non fosse un buon comunista ed era addolorato per la morte insensata del suo primogenito nel giorno in cui iniziava una gloriosa carriera di pilota. In un certo senso siamo tutti vittime del sistema, come abbiamo dimostrato dopo vent’anni di Putin». 
Krusciov morì cinquant’anni fa per un infarto dopo la pubblicazione delle sue memorie in Occidente sulla rivista «Time». Che cosa accadde?
«Suo figlio Sergei le consegnò all’Occidente. Disse che era stato Krusciov a volerlo, ma non era vero. A mia nonna Sergei disse invece che era stato mio padre, che era morto, a consegnarle a “Time”».
Che nonno era? 
«Adorabile. Spiritoso, curioso, umano. Il mio primo giorno di scuola, avrò avuto sei o sette anni, mi telefonò: “Vorrei congratularmi con te per l’inizio della tua carriera lavorativa”. Lui e la nonna dicevano che, anche da bambine, dovevamo essere “educate al lavoro”: io e mia sorella Ksenia venivamo mandate a raccogliere fragole e pomodori, ma ci nascondevamo nella biblioteca di Petrovo Dalnee per evitarlo. Gli adulti si aspettavano che fossimo delle piccole sovietiche perfette, ma a volte il nonno ci permetteva di essere semplicemente bambine».