Il Messaggero, 21 agosto 2021
Il furto della Gioconda, 110 anni fa
Il 21 Agosto del 1911, esattamente 110 anni fa, il mondo assistette attonito al furto della Gioconda. In pochi minuti, tra le sette e le otto del mattino, un imbianchino originario di Varese, Vincenzo Peruggia, rimosse il quadro dalla parete, staccò la tavola dalla cornice e usci indisturbato dal Louvre, allora come oggi il Museo più ricco di arte, di storia e di visitatori. Lo stupore e lo sgomento universale furono alimentati dalle polemiche sulla facilità di un’impresa così ardita e dalla mancanza di controlli su tali e tanti gioielli.
L’autore del furto non era né un componente di una banda organizzata, e nemmeno un pregiudicato del settore. Era un umile operaio di trent’anni, assunto per la manutenzione interna dell’edificio: questo intraprendente emigrato si limitò a cogliere l’occasione che fa, come si dice, l’uomo ladro. Che non fosse un professionista lo si vide in seguito. Per un paio d’anni tenne prudentemente nascosto il corpo del reato, mentre la polizia francese impazziva per recuperarlo, seguendo, come spesso accade, le ipotesi più fantasiose e formulando le ipotesi più complottistiche. In questa iperattività confusionaria arrivò persino ad arrestare come sospetti Guillaume Apollinaire e Pablo Picasso.
Passata la buriana, Peruggia offrì la Gioconda a un mercante italiano che, malgrado la comprensibile diffidenza per quella che sembrava una solenne millanteria, avvertì le autorità. Con sorpresa di tutti l’iniziativa di Peruggia si rivelò seria, il quadro fu recuperato dai nostri carabinieri e il suo possessore arrestato. Al processo, l’imputato si difese invocando il patriottismo: voleva restituire all’Italia un capolavoro sottrattole dal vorace Napoleone. Non sappiamo se fosse in buona o fede o meno. In effetti, il Louvre rigurgita di trofei portati dai vari conquistatori, e soprattutto da Bonaparte. Ne sanno qualcosa i veneziani costretti ad ammirare Le nozze di Cana del Veronese nel refettorio di San Giorgio in versione virtuale, perché l’originale della gigantesca tela occupa un’intera parete del museo parigino, e fu tagliata, smontata e fatta rimontare senza tanti scrupoli estetici né morali dal giovane condottiero. E potremmo continuare a lungo. Un altro orgoglio del Louvre, il codice di Hammurabi, venne trovato agli inizi del 900 a Susa, in Persia, e da lì trasferito sulle rive della Senna; e tuttavia la storica stele era stata a suo tempo sottratta dagli elamiti ai Babilonesi, cosicché di questo passo potrebbe instaurarsi oggi un conflitto di attribuzioni tra Francesi, Iraniani e Iracheni.
Del resto ì greci continuano a chiedere invano al British Museum la restituzione delle metope del Partenone, cioè di quelle sopravvissute al bombardamento fatto dai veneziani, benché gli stessi ateniesi, nei loro tempi migliori, avessero ornato la civiltà ellenica con i frutti delle conquiste militari. In definitiva, buona parte delle opere d’arte dei musei mondiali è frutto di truffe, guerre e rapine. Dietro tanta bellezza, c’è spesso altrettanta crudeltà. Ma torniamo al furto e al suo autore.
Per quanto riguardava la Gioconda, la scusante patriottica di Peruggia era del tutto infondata. Leonardo se l’era portata appresso durante il soggiorno alla corte di Francesco I, e il dipinto non era mai uscito dal Regno d’oltralpe. Se c’è un quadro di cui i francesi possono vantare un’acquisizione legittima questo è proprio il ritratto di Monna Lisa. Così, malgrado qualcuno invocasse il principio del male captus, bene retentus, il governo italiano il 14 Gennaio 1914 restituì il dipinto a quello francese: i due paesi stavano coltivando una crescente amicizia, che un anno e mezzo dopo li avrebbe visti alleati sui campi di battaglia. Quanto a Peruggia, fu processato in Italia per il reato di furto, senza essere estradato.
Si narra che al dibattimento, per valutare la sanità mentale dell’imputato, il perito psichiatra gli abbia rivolto la seguente domanda tranello: «Su un albero ci sono due uccelli, un cacciatore spara e ne ammazza uno. Quanti ne rimangono sui rami?». «Uno», rispose l’imputato. «No» – replicò lo strizzacervelli – «non ne rimane nessuno, perché l’altro è scappato». Dal che trasse la conclusione di frenastenia e inferiorità mentale del Peruggia, meritevole di uno sconto di pena. Poiché, dopo quaranta e passa anni di processi penali e di perizie lette e contestate, non nutriamo particolare fiducia in questa incerta disciplina, abbiamo rivolto per curiosità la stessa domanda a varie persone di fermo intelletto e consolidata cultura. E tutte hanno risposto come Peruggia. Il tribunale deve aver fatto la stessa cosa, perché ritenne l’imbianchino perfettamente capace di intendere di volere, ma gli concesse varie attenuanti e lo condannò a una pena assi mite. Dopo pochi mesi, scoppiata la guerra Peruggia si arruolò, combattè, fu catturato dagli austriaci, tornò incolume, si sposò e ritornò con un espediente in Francia, dove mori a soli 44 anni, nel 1925.
Ammoniti da questa salutare esperienza, ed educati a una maggiore sensibilità conservativa, i reggitori del Louvre, nel prosieguo degli anni, hanno tenuto d’occhio Monna Lisa con maggiore attenzione. Durante la seconda guerra mondiale il governo di Vichy riuscì a sottrarla alle rapaci pretese di Hermann Goering, e dello stesso Hitler, con vari pretesti e sottili astuzie. Ma i pericoli rimasero: oltre ai ladri, esistono mitomani ed esaltati che per protagonismo o delirio pantoclastico attentano all’integrità delle opere d’arte: tutti ricordiamo la sacrilega martellata al naso della Madonna nella Pietà di Michelangelo. Anche la Gioconda, affrancata dal pericolo del furto, rischiò più di una volta di essere profanata. La conseguenza è che da qualche decennio Monna Lisa ci osserva dietro una protezione di vetro blindato, a una congrua distanza dal visitatore, fulminata da un’illuminazione discutibile che ne impedisce la degustazione della profondità spaziale, della densità atmosferica, della maniacale cura dei dettagli e soprattutto dell’intensità espressiva di questa indescrivibile creatura.
Chi ha avuto il privilegio di osservarla da vicino prima di un simile impacchettamento, fugge oggi inorridito davanti a quella sorta di altare laico, reso inaccessibile dalla marea vociferante di turisti profani che vedono poco, non capiscono niente e fotografano tutto. Forse Leonardo nel suo irridente realismo, e con la fantasia anticipatoria del genio, immaginava questo malinconico trionfo della sua modella prediletta, ingabbiata come le vergini vestali per sottrarla alle insidie del mondo. E forse l’espressione ironica di Monna Lisa, nella sua enigmatica complessità, più che alle contraddizioni della vita irride alla stupidità degli uomini, che per cupidigia, vanità o altro l’hanno ridotta così.