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 2021  agosto 21 Sabato calendario

A Abbey Road, negli studios dei Beatles

A sinistra della tastiera, orbitando lungo questo pianoforte verticale Challen del 1930, ci sono bruciature di sigaretta. Sono di John Lennon. «I wanna be a paperback writer!». I Beatles la composero il 13 e 14 aprile 1966 su questo strumento tozzo e straordinario, una scarpa marrone come Old Brown Shoe,creata sempre su questi tasti tre anni dopo, e prima Tomorrow Never Knows del rivoluzionario album Revolver. Siamo, eccezionalmente, nello “Studio Due” di Abbey Road. Dove i “Fab Four” composero quasi 190 di 210 canzoni. Uno studio di norma inaccessibile al pubblico.
Non stavolta. Primo comandamento: niente foto. Anzi, bollino anti- scatto sulla fotocamera del cellulare. Sono le regole del bunker della musica, lo scantinato dei capolavori, la loro fabbrica celestiale. Che «non apriva così al pubblico dal 1983», ci assicurano un paio dei 70 impiegati degli Abbey Road Studios. Biglietto: 150 euro. Posh. Ma è un tour unico. Perché è una settimana speciale: per celebrare gli imminenti 90 anni di vita, gli Abbey Road Studios hanno accolto a Londra pochi appassionati della musica britannica e mondiale, tra cui Repubblica.
Selfie all’ingresso, «l’unico posto dove si può scattare una foto», e giù in questo ade paradisiaco, nelle inaspettate viscere di quella che dall’esterno, nel nord di Westminster a Londra, pare soltanto una casa candida e georgiana. Benvenuti ad Abbey Road. Dove i Beatles benedissero quelle iconiche strisce pedonali per l’omonimo album, mecca di fan e pellegrini della musica. Poco più avanti, ecco la sede degli epici e alberati Abbey Road Studios, rinominati così nel 1970 dopo che i Beatles, prima di frantumarsi, vi dedicarono il penultimo album Abbey Road. Gli studios vennero inaugurati sulle note di Land of Hope & Glory di Sir Edward Elgar. Speranza e gloria. Era il 12 novembre 1931, e il merito fu di Gramophone, prima vera casa di registrazione di musica al mondo, poi Emi, oggi Universal. Una scommessa. Perché all’epoca gli artisti non volevano essere registrati, per paura di sbagliare.
«Fino a qualche decennio fa, cantanti e musicisti affittavano queste stanze a lungo», ci spiega Marta Di Nozzi, unica italiana tra gli ingegneri del suono degli studios. Laurea al Saint Louis College di Roma, poi la lode all’Abbey Road Institute nel 2019: «I Beatles vivevano qui anche per tre mesi: scherzavano, oziavano, trovavano l’ispirazione. Poi incidevano». «Come together, right now!» , parte intanto di sottofondo. «Oggi non è più così: l’artista arriva con un prodotto praticamente realizzato in casa. Qui lo sistemiamo, rifiniamo, registriamo. Ci si mette molto di meno: qualche giorno, o una settimana».
Certo, ci sono eccezioni. I Muse, per il nuovo album, hanno affittato lo “Studio Two” di Abbey Road per un mese. Una delle più grandi band inglesi contemporanee può permetterselo. Ma i giovani gruppi non vengono abbandonati. «Non abbiamo preferenze nell’affittare le sale», ci assicura un manager degli studios. La piccola “Front Room” costa “soltanto” 600 euro al giorno. Invece, gli straordinari Studi Uno, Due e Tre, migliaia di euro. Lo Studio Tre è il più piccolo, intimo e il meno leggendario di questi. E però: qui i Pink Floyd hanno inciso parte del monumentale The Dark Side Of The Moon.
Mentre Amy Winehouse registrò per l’ultima volta poco prima di morire il 23 luglio 2011. Davanti a questi microfoni- ragnatela Neumann U48 – dagli anni Cinquanta i migliori al mondo per la musica pop – Tony Bennett e la straordinaria e tormentata cantante di Camden Town incisero la classica Body & Soul. Corpo e anima, a pezzi, di Amy. Qui, il 95enne crooner americano, quel giorno vestito di luttuosa e profetica eleganza, provava a rassicurarla: «Dai che stai migliorando, hai una voce meravigliosa». Tristezza. All Things Must Pass, tutte le cose passano, aveva cantato, in questa stessa stanza mogano e tappezzeria blu, George Harrison. E poi i Beatles, Lady Gaga, Florence & The Machine, Frank Ocean, il rock’n’roll di Cliff Richard.
Ma il regno dei “Fab Four” è lo “Studio Two”. Qui avvenne la rivoluzione del pop. Lo raggiungiamo attraversando vari corridoi, la “control room” con una console mostruosa da 2001 Odissea nello Spazio e una discesa di scalini. Si respira uno stantio odore di leggenda, in questo studio bianco, enorme ( circa 200 metri quadri), slanciatissimo ( almeno 10 metri), con enormi e lunghi “cuscini” arancioni che dal 1955 fluiscono dal soffitto per migliorare l’acustica. A terra, strumenti unici: il piano castano Schiedmayer Celeste (1886), quello della intro di Time dei Pink Floyd. Lo stellare organo Hammond Rt-3 del White Album dei Beatles. La console vintage EMI TG MK3 e l’iconica REDD. 17. Il glorioso piano verticale “boogie- woogie” Steinway Vertgrand, uno dei più longevi (1905) e destinato a Lady Madonna, Penny Lane e Ob- La- Di, Ob-La-Da. E ancora gli Oasis, Money dei Pink Floyd, Adele, i Muse, Ed Sheeran. Sono passati tutti qui, nello Studio Due. E così Alan Blumein, che in questo gigantesco cubo arrivò a un’invenzione rivoluzionaria: il suono stereo, nel 1931. Ma, bizzarro destino, era troppo avanzata per l’epoca: non avrebbe preso piede fino gli anni Cinquanta. Mentre Blumein, esperto anche di radar bellici, morirà in guerra nel 1942. Ma la notizia venne censurata per non demoralizzare il popolo.
A proposito. Lo Studio Due ha una stanza segreta. È l’ex bunker anti raid nazisti, l’“Echo Chamber”. Ricorda il Korova Milk Bar di Kubrick: interni latte, piastrellati, curiose colonne bianche in mezzo, fragranze di muffa. «È come un sottomarino, anzi un bagno», secondo l’ingegnere del suono Paul Pritchard, «qui, negli anni Sessanta, Lennon e Mc-Cartney sperimentavano. Le colonne servivano a disperdere il suono. Una volta “Macca” – che durante la registrazione di Sgt Pepper’s nel 1967 viveva tre strade più avanti – si mise a sperimentare vicino all’uscita antincendio. I vicini erano furiosi».
Ma eccoci nell’ultimo girone dell’Eden della musica. Studio Uno. Il più grande del mondo nato per lo scopo, quasi 300 metri quadri e altri 10 in altezza, che accolgono orchestra sinfonica e coro. Rivestimenti sonori blu e bianchi degli anni Sessanta, microfoni “Delta 3” e il pavimento ligneo di 90 anni fa. Qui George Bernard Shaw assistette divertito all’inaugurazione di Elgar. E sempre qui, oltre a Stevie Wonder, Kanye West, Sting e gli U2, sono nate le colonne sonore del Signore degli anelli, Star Wars, Skyfall, Black Panther, Harry Potter, Gravity, La forma dell’acqua. Nello Studio Uno, cinque anni fa, Ennio Morricone e Tarantino musicarono The Hateful 8. C’è il tempo per un ultimo, roboante quarto d’ora nella “control room”, dove si scolpisce l’arte dei musicisti. Ascoltiamo in console proprio L’ultima diligenza di Red Rock da quel film.
That’s all folks, finisce qui. Le porte di Abbey Road si richiudono alle nostre spalle, chissà per quanti altri anni. Here comes the Sun, sembra cantare il sole, appena usciti dagli studios. Attraversiamo le strisce pedonali, quelle dei Beatles, e all’improvviso è tutto chiaro. Come in The End di Abbey Road,l’ultima canzone che riunì fisicamente i Fab Four in studio, l’amore per la musica è lo stesso di quello che da essa si riceve.