Robinson, 21 agosto 2021
L’intreccio tra calcio e politica in Italia
Che non sarebbe stato solo un gioco lo si capì subito. La prima volta che il campionato di calcio e gli italiani si incontrarono, fu evidente che l’allora semisconosciuto football non solo avrebbe rapito il cuore, ma si sarebbe fatalmente intrecciato con la storia della allora giovanissima nazione scandendone i tempi e spesso incaricandosi di rivelarne il carattere.
La prima volta fu una domenica di maggio del 1898 e la misteriosa macchina che muove la Storia si peritò subito di intrecciare gli irregolari rimbalzi del pallone con il destino collettivo. Un campo in terra ricavato in un velodromo, ai margini di Torino e quattro squadre a disputarsi lo scudetto in una sola giornata (semifinali in mattinata, finale al pomeriggio). Il pubblico è sparuto, in campo si affrontano operai, politici, aristocratici, borghesi, ma quello che interessa qui è la coincidenza che rivela un destino. Proprio mentre a Torino si assegna il primo titolo del campionato di calcio, qualche centinaio di chilometri più in là, a Milano, le truppe del generale Bava Beccaris sparano sulla folla che protesta per il rincaro dei prezzi. L’Italia è una nazione giovanissima e il gioco del calcio vagisce appena. È come se in quel giorno nascesse una storia d’amore destinata a segnare date, vite, appuntamenti. In un libro edito da Einaudi nel 2005, che si intitola per l’appunto La prima volta, Franco Bernini racconta queste adolescenze parallele – quella dell’Italia e quella del pallone – che si trasfor-meranno in vite adulte e compiute e che cammineranno, spesso, molto spesso, l’una accanto all’altra.Sul set della realtà del tempo ( il primo scudetto se lo aggiudica il Genoa, i cannoni di Bava Beccaris fanno ottanta morti), si muovono i protagonisti del romanzo. L’eco delle cannonate da Milano arriva fino al campo alla periferia di Torino, entra sul terreno di gioco, provoca divisioni extra sportive tra i calciatori. Sta arrivando il Novecento e, in Italia, il secolo breve lo annuncia il rotolare della palla.
Quando Pasolini definì il calcio «l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo», saremo già nel bel mezzo del Novecento. Prima erano successe altre cose, l’Italia aveva attraversato due guerre e la dittatura. E il campionato di calcio era sempre lì. Anzi. Serviva da segnatempo, quando, addirittura, i tempi non li anticipava. Il 31 ottobre del 1926, per esempio, Benito Mussolini entra a cavallo nello stadio, che allora si chiamava “Littoriale”, voluto e fatto costruire a Bologna da Leandro Arpinati tra i gerarchi più fedeli al Duce, capo dei fascisti bolognesi la cui vicenda – comprese le implicazioni calcistico – politiche, è ovviamente raccontata nella trilogia che Antonio Scurati ha dedicato a M. il figlio del secolo (Bompiani). Giacomo Matteotti è stato assassinato due anni prima, il regime sta stringendo il cappio sulle libertà civili e il pallone rotola già, con la cadenza fissa dei campionati, sui campi e nelle teste degli italiani. L’inaugurazione dello stadio di Bologna segna la scelta del fascismo: il calcio può diventare uno strumento di propaganda. Tra i più efficaci, peraltro. Quel che segue è storia nota: i titoli mondiali del 1934 e del 1938, il “balilla” Meazza, il controverso grado di adesione al fascismo del c.t. Vittorio Pozzo.
Certo è che nel ventennio il calcio diventa sport nazionale e della nazione contribuisce a identificare il carattere. Il fascismo e Mussolini fiutano la corrente di sentimento che passa tra gli italiani e quel gioco che non è soltanto un gioco. Altri non lo fanno o si rifiutano di farlo. Per esempio, gli intellettuali con rare eccezioni come quella di Umberto Saba che, ricevuto in dono da un amico un biglietto per la partita tra la Triestina e l’Ambrosiana Inter decise di andare allo stadio e rimase folgorato dal gioco e da quello che attorno al gioco succedeva, al punto da dedicargli cinque liriche del canzoniere (Il portiere caduto alla difesa ultima vana…) Errore capitale, il sussiego intellettuale rivolto alla palla che rotola inseguita da ventidue ragazzi in mutande. Toccherà ancora a Pier Paolo Pasolini ( che di calcio era notoriamente appassionato – tifava per il Bologna – e praticante) spiegare il perché. Da poco Garzanti nella collana piccoli grandi libri ha mandato in stampa Il mio calcio, raccolta di articoli scritti dall’intellettuale romano, sul campionato nel periodo tra il 1956 e il 1975. C’è una bella prefazione di Gabriele Romagnoli nella quale si ricorda come in una intervista a Paese Sera del 1956 Pasolini sosteneva che «sarebbe un male per la classe dirigente e per gli intellettuali disinteressarsene (del calcio)». Qualche anno dopo sempre Pasolini lamentava «che in Italia il calcio non ha ancora avuto l’onore di un interesse intelligente». Siamo nel 1963, il boom economico è già in corso e il calcio – il Milan in questo caso – attraversa perfino i pensieri, altrimenti concentrati sull’intento di vendicare i minatori morti in un incidente, del protagonista del romanzo di Luciano Bianciardi La vita agra (che è del 1962).
«Il football è anche quello che non è», chiosa Arp il protagonista del romanzo Azzurro tenebra che Giovanni Arpino scrive per raccontare la disastrosa spedizione della nazionale italiana ai mondiali di Germania del 1974. È probabilmente il libro che rivela il calcio come metafora perché annuncia, attraverso la debacle degli azzurri ( tra i favoriti, ma eliminati al primo turno) l’ingresso del Paese nel periodo buio del post boom. È un tempo, anche questo, che è possibile leggere in anticipo attraverso le sorti del campionato di calcio e dell’affollatissimo mondo che ormai gli si muove intorno. Quello degli ultrà, per esempio. Tobias Jones, storico inglese ha trasferito in un saggio la sua ricerca sui gruppi degli ultras delle squadre di calcio italiane. Si chiama Ultrà, il volto nascosto delle tifoserie di calcio in Italia e, tra l’altro, racconta come all’inizio degli anni Settanta nelle curve degli stadi entri la politica. Nei gesti dei tifosi ( «i cori vengono scanditi con le mani a formare il gesto dell’impugnare la P38»), nei nomi dei gruppi ultrà (Brigate, commandos). Sono gli anni di piombo e il calcio anticipa e ricalca lo svolgersi degli eventi nel Paese. Lo racconta bene Angelo Carotenuto in Le canaglie edito da Sellerio che cuce insieme la storia di quella stranissima squadra che era la Lazio che vinse lo scudetto del 1973-’ 74 con quella di un Paese che si incrudelisce via via. Si spara nelle strade e nello spogliatoio dei campioni d’Italia. Nel rotolare del pallone si leggono i destini collettivi. Succederà di nuovo negli anni Ottanta. Gli anni del boom e dei nuovi ricchi, dei successi dell’Italia da bere costruiti sul deficit, annunciati dal Milan di Berlusconi. Anni dopo Michele Mari, milanista, dedicherà alla sua squadra un poema. Per la verità, lo dedicherà a un centravanti rossonero degli anni Ottanta che, però, non è il Van Basten dei fasti berlusconiani, ma il più modesto Mark Hateley che giocava qualche anno prima che arrivassero i milioni di Silvio. Perché il football ricalca sì i destini collettivi, ma lascia spazio alle personali fughe nella passione. Ed è per questo che non può essere soltanto un gioco.