Robinson, 21 agosto 2021
Anche Proust andò a scuola dai Grimm
Nella sua avvincente autobiografia, Padre e figlio, Edmund Gosse racconta di come le opere di fantasia non fossero ammesse nella severa famiglia calvinista dei suoi genitori. «Mai nessuno, nella mia prima infanzia, mi rivolse l’emozionante preambolo: “C’era una volta”. Mi parlavano di missionari, mai di pirati; conoscevo i colibrì, ma non sentii mai parlare di fate. Jack Ammazzagiganti, Tremotino e Robin Hood non mi erano familiari, e per quanto sapessi tutto sui lupi, mi era ignoto perfino il nome di Cappuccetto Rosso. Io penso che quando i miei genitori, nell’intento di consacrarmi esclusivamente a Dio, bandirono la fantasia dalla mia visione della realtà, commisero un errore. Mi volevano veritiero: la loro intenzione era quella di rendermi positivo e scettico. Se mi avessero avvolto nelle morbide pieghe della fantasia soprannaturale, la mia mente avrebbe potuto accontentarsi di seguire le loro tradizioni più a lungo e con uno spirito meno critico».
Come Gosse avrebbe scoperto, le fiabe non sono false, anche se non affrontano le verità della nostra realtà attraverso considerazioni concrete e razionali. Esse hanno una visuale privilegiata che poggia nel regno del prodigioso, nella geografia della libera immaginazione, e dall’alto delle torri di castelli incantati o dalla profondità delle caverne del Regno degli Elfi, ci permettono di contemplare le nostre gioie segrete e i nostri terrori inconfessabili, i nostri folli sogni di avventura e la nostra paura dell’ignoto. Sotto sembianze fatate, ci fanno comprendere le assurdità delle nostre convenzioni sociali, la nostra politica familiare, il nostro rapporto con l’autorità. Nella quotidianità del nostro mondo, ogni magia scoperta riceve una spiegazione scientifica o burocratica, e ogni morte di cui facciamo esperienza è per sempre.
Eppure, dietro a ogni risposta concreta e pragmatica si nasconde un coacervo di oscure e insidiose domande che ci spinge a non compiacerci di queste spiegazioni e a diffidarne. Dante definisce tali finzioni “non falsi errori”. Come spiegare allora il fascino che le favole esercitano, sempre e dovunque, su di noi? Perché ci incanta la promessa di qualcosa che avvenne «tanto, tanto tempo fa, in una terra lontana»? Perché vogliamo ascoltare, e riascoltare ancora, la saga delle belle principesse, degli eroi coraggiosi, degli astuti animali parlanti, dei lupi voraci e degli orchi pelosi, delle vecchiette gentili e delle streghe cattive?
Marina Warner, una studiosa della fiaba, suggerisce che sono quattro le caratteristiche che definiscono una vera fiaba: in primo luogo, la sua lunghezza (dovrebbe essere breve); secondo, dovrebbe essere ( o sembrarci) familiare; terzo, bisogna che implichi «una presenza del passato» attraverso trame e personaggi ben noti; quarto, poiché le fiabe sono raccontate in quello che Warner definisce giustamente «un esperanto simbolico», deve far sì che azioni orrende ed eventi truculenti siano letti come fatti normali. Se, come dice Warner, «l’ambito di una fiaba è creato dal linguaggio», è attraverso il linguaggio che il nostro mondo subconscio, con i suoi sogni e le sue mezze intuizioni, prende vita e i suoi fantasmi si trasformano in figure comprensibili come giganti cannibali o genitori malvagi o bestie amichevoli.
Il termine tedesco per fiabe è Wundermärchen, che distingue, nell’ambito generale delle fiabe, le storie popolari genuine dalle fiabe letterarie, Kunstmärchen, queste ultime nate da un intento intellettuale romantico di salvare le prime. In Europa, tra il XVII e il XIX secolo, i movimenti nazionalistici portarono a determinate ricerche di materiale popolare originale che definisse in qualche modo l’anima dei Paesi nascenti e in via di unione, dando luogo all’opera dei Fratelli Grimm, naturalmente, e a quella di Charles Perrault, Hans Christian Andersen, Madame d’Aulnoy, nonché di Giambattista Basile ( Croce definì il suo Pentamerone «il più bel libro italiano barocco»).
I fratelli Grimm e i loro compagni si procuravano le loro storie dai cantastorie dei villaggi e dai servi più anziani, soprattutto donne. I cantastorie avevano a loro volta sentito le favole raccontate dai loro anziani, e le elaboravano e alteravano secondo le circostanze o la loro inclinazione mentre le recitavano al pubblico con voci diverse e gesti identificativi. Ma quando i fratelli Grimm e gli altri “cercatori di autenticità” le trascrissero, cambiarono ancora una volta il testo in quello che giudicarono essere uno stile veramente popolare, inventando a questo scopo una voce narrativa che venne identificata come genere fiabesco.
La popolarità, l’influenza e la diffusione di queste fiabe, nelle loro versioni riviste e pubblicate, fu immensa, non solo contribuendo a definire quella che, a partire dal XIX secolo, cominciò a essere chiamata “letteratura per l’infanzia”, ma anche infondendo in tutta la narrativa seria la possibilità di raccontare storie in un modo “popolare” di nuova concezione. Le Brontë, Manzoni, Lermontov, George Sand, Proust, Oscar Wilde e molti, molti altri hanno un debito letterario nei confronti di questi raccoglitori e ri- narratori. Soprattutto Dickens ha scritto sotto la loro influenza e i suoi romanzi ( come ha giustamente osservato Chesteron) sono tutti, in un certo senso, delle favole. Quando Scrooge viene portato via dal primo degli spiriti, si rivede da piccolo, abbandonato in un’aula scolastica vuota, a Natale, ma circondato dai personaggi delle fiabe che sta leggendo: da Valentin e Orson del romanzo carolingio, da Ali Baba e dai geni delle Mille e una notte, e persino da Robinson Crusoe e dal suo pappagallo, trasformati nell’ardente immaginazione del bambino in abitanti del mondo delle fiabe. Con i loro motivi ripetuti e i loro personaggi ricorrenti, le fiabe sono state raccontate un’infinità di volte nei secoli e dall’antica Cina e dall’India sono giunte fino all’Europa vittoriana e all’America contemporanea.
Ebbene, che cosa hanno da dire sulla condizione umana? Il fatto che la storia di Cenerentola appaia sotto una veste nella Cina del IX secolo e in un’altra nella Napoli del Seicento, e poi muti in Francia tra il 1690 e la fine del secolo e ancora una volta in Scozia cento anni dopo, indica un comune inconscio umano ancestrale, o è la prova di comunicazioni e influenze interculturali più forti di quanto anche il più navigato degli studiosi avrebbe sospettato? I narratori di fiabe odierni potrebbero riconoscere questo immaginario comune: Angela Carter in Inghilterra, Ludmilla Petrushevskaya in Russia, Michel Tournier in Francia, Margaret Atwood in Canada.
Gli storici del folklore hanno cercato di trovare le radici di certe storie in eventi reali (Barbablù sarebbe stato ispirato da Gilles de Rais, il lupo diCappuccetto Rosso dalla Bestia del Gévaudan) ma il loro terreno di esplorazione è tutt’altro che chiaro. La psicologia, addentrandosi nelle fiabe, si affanna in una zona nebulosa: il vocabolario simbolico della nostra psiche ( e quel “nostra” tradisce un’intuizione di universalità) viene letto secondo le convenzioni della tribù a cui ogni individuo appartiene, e chi può dire se queste diverse traduzioni di immagini di paura, amore, famiglia, coraggio e fiducia derivino da un insondabile elemento originale comune. Nessuna lettura investigativa delle fiabe può fornire una spiegazione unica, indiscutibile e chiara. Niente sembra in grado di spiegare i loro paesaggi fantastici, irti come sono di camere insanguinate e foreste oscure e minacciose. Dopo tutti gli sforzi fatti per dissezionare e analizzare il loro funzionamento, e per incasellare Biancaneve e il Gatto con gli stivali in categorie perfettamente etichettate, le fiabe stesse ne escono intatte, pronte per essere raccontate di nuovo.
(Traduzione di Luis E. Moriones)