In Italia stanno per uscire due suoi nuovi libri. Uno s’intitola Moltissimo, ed è una raccolta di poesie recenti edita da Ponte alle Grazie. L’altro, pubblicato da Salani, si chiama Tric Trac Trio ed è destinato a piccoli lettori. Unisce tre vicende illustrate i cui intrecci risultano dai martellamenti fonetici prodotti dagli incastri delle iniziali dei personaggi. La partita è anche sonora: se il testo fosse letto ad alta voce, avrebbe la musicalità di un rap. Inoltre in autunno, alla già premiatissima Atwood, spetta il Premio Speciale Lattes Grinzane, attribuito ogni anno a un autore internazionale. Lo riceverà il 2 ottobre ad Alba, in Piemonte, dove terrà una lectio magistralis.
Gioco, riso, stupori infantili, racconti delle ancelle… Quanto tutto ciò può difenderci dalle paure del presente e del futuro, Mrs Atwood?
«Le fiabe hanno un ruolo protettivo. Ma non da oggi! Ho amato sempre scrivere per i bambini. Cominciai negli anni Settanta, spinta da un editore amico che mi pregava di aiutarlo a ingranare, e compresi che la regola principale era un vero lieto fine. Nessuno regalerebbe al figlio una storia dove al termine si muore. Le fiabe devono chiudersi in letizia».
Oggi scrittori noti — Zadie Smith, Fernando Aramburu, David Grossman, James Patterson, John Grisham, Dan Brown… — firmano letteratura per l’infanzia. Aspirazione alla purezza? Voglia di riscatto?
«Scrivono anche loro per i piccolissimi? Penso di no. Esistono fasce di età diverse. Un bimbo di tre anni non può affrontare L’isola del tesoro. Io mi rivolgo ai più piccini, quelli fra i tre e i sei anni, incapaci di leggere da soli e disposti ad ascoltare».
Inseguiamo le fiabe per alleggerire la realtà?
«Mi sembra importante tentare di alleviare il peso della vita, soprattutto per i nostri figli e nipoti. Riguardo ai teenager la faccenda cambia. Vanno matti per l’elettronica e adorano il cosmo digitale. Spesso con loro la lettura non attacca. Invece con i piccolini possiamo concederci il lusso di donare gioia».
Le sue opere, Mrs Atwood, non prescindono mai dalla concretezza storica degli eventi. Che si tratti di streghe bruciate sul rogo o di ancelle trucidate da Odisseo quando torna ad Itaca, dalle sue pagine distopiche traspaiono agganci alla realtà. Considera le distopie più rivelatorie del realismo?
«Non so scrivere di draghi, fenomeni magici o roba del genere. Devo partire da ciò che sta accadendo o è già accaduto, ma esasperandolo al massimo. Pensi a George Orwell e al suo 1984, dove tutto si fondava su qualcosa di già successo o che sarebbe potuto avvenire. Sto leggendo un’ottima biografia di Orwell, scritta da Rebecca Solnit, da cui ho appreso che era un provetto giardiniere. I roseti che piantò nel 1936 esistono ancora! Il legame di Orwell col senso della terra e con la natura può dirci molto sulla sua grandezza».
Dalla trilogia di MaddAddam fino a opere popolari come “Il racconto dell’Ancella” e “I testamenti”, natura e ambiente attraversano gran parte della sua produzione.
«La gente scopre ora ciò che innumerevoli scienziati preannunciavano da tempo. Siamo grandi mammiferi terrestri che respirano ossigeno, bevono acqua ed esigono cibo. Eppure insistiamo nell’intossicare e nel surriscaldare il pianeta. Avremmo già dovuto maturare la coscienza che quanto ci è indispensabile svanirà entro pochi anni. Non sarà un mio problema, dato che ho un’età piuttosto avanzata (è nata nel 1939, ndr). Comunque sarei in ansia per la mia sopravvivenza non solo se avessi vent’anni, ma anche se fossi una cinquantenne. I governi dovrebbero mobilitarsi e mettere in atto un programma globale.
Sennò addio razza umana e rimarranno gli scarafaggi. Chi ascolta Mozart? Chi contempla il Colosseo? Gli scarafaggi apprezzeranno tanta bellezza?».
Pensa che la pandemia sia l’esito di uno squilibrio della natura?
«Non la si può mettere così. Non si può dire che siamo stati troppo maleducati o cattivi e che saremo sommersi dal diluvio. Le epidemie non sono mai mancate. Ma se continuiamo a infischiarcene della natura, andremo incontro a catastrofi sempre più distruttive. Già viviamo in condizioni metereologiche assurde. Eppure eravamo stati avvertiti. Si può attribuire il tutto all’enorme idiozia di persone a cui certe cose erano state ripetute fino alla nausea, ma che non hanno smesso di comportarsi nello stesso sciagurato modo. Molti esseri umani sono pensatori a breve termine. Se nulla li disturba, guardano fuori dalla finestra e dicono: dov’è il problema? È la stessa logica dei no-vax: il Covid non ce l’ho. Quindi ne resto fuori».
Molte sue storie paiono scaturire da un crescendo verbale di sorprese. Aggettivazioni inaspettate, spirali sintattiche spiazzanti, assenza di un flusso conseguenziale del tempo. Come ha messo a fuoco la forma peculiare della sua prosa?
«Ogni scrittore ha di fronte a sé la medesima questione: in che modo può narrare una storia. C’è una sequenza di situazioni e fatti che equivale alla trama. Ma la maniera di esporla è variabile. L’Iliade, ad esempio, prende l’avvio nel mezzo del plot. Achille se ne sta imbronciato nella sua tenda, e tornando indietro nel tempo scopriamo le cause del suo broncio. Poi andiamo avanti e vediamo cosa avviene quando esce dalla tenda. Un’altra antica storia come Gilgamesh è invece completamente lineare, nel senso che comincia dal principio e corre fino alla conclusione. Al contrario l’Odissea è complicata e prevede due prospettive. Ulisse viaggia e Penelope attende. È come in quei film western dove uno difende il fortino e l’altro sta accorrendo per sostenerlo, però nessuno dei due sa ciò che sta accadendo al compagno. In ogni storia tocca chiedersi: chi la sta narrando? È una persona? Sono più individui? Chi sta ascoltando?».
In quest’itinerario, come definirebbe l’area di partenza?
«La chiave è il tempo. Si parla di passato, presente e futuro, che però non esistono se non nella nostra testa. Trovare una forma per declinare cronologicamente una trama significa capire come davvero pensiamo di sapere ciò che noi autori abbiamo pensato di sapere. I romanzi sono sempre un po’ gialli, perché all’inizio ci sono cose che il lettore ignora. Il lettore è Dante che entra nell’Inferno guidato da Virgilio. L’autore, Virgilio, promette di mostrargli un mondo. Vieni con me a scoprire il territorio. Poi sarò io a consentirti di uscirne. Ma se lo svelamento giunge troppo presto, l’ingranaggio non funziona poiché la curiosità svanisce e non spinge la lettura. D’altronde, se l’autore non dice abbastanza, il lettore non è stimolato a procedere. Il cadavere — tenendo buona l’idea del libro giallo — va quindi messo nella prima parte. Bisogna che il lettore abbia l’impulso di scovare il colpevole dell’omicidio».
Tuttavia non necessariamente si va verso un lieto fine.
«Potrebbe non esserci un happy end convenzionale, però si cammina sempre verso una rivelazione. Giulietta sposa Romeo. Muoiono entrambi, ma la scoperta dell’amore c’è stata».