la Repubblica, 21 agosto 2021
Al Qaeda e Isis divisi sui talebani
Il ritorno al potere dei talebani ha dato una scossa alla frastagliata galassia islamista globale, ingenerando una serie di reazioni che forniscono indicazioni importanti su dinamiche presenti e future. Un primo riscontro è quello della natura bicefala del jihadismo contemporaneo, con al Qaeda e Stato Islamico che competono per la primazia del movimento e nell’attrarre reclute, fondi e fedeltà di formazioni locali.
In questo scontro, che avviene sia sul campo della propaganda online che, talora, su veri e propri campi di battaglia, l’ascesa talebana costituisce un enorme successo per l’universo qaedista. I talebani sono da sempre alleati e protettori del gruppo ora guidato da Ayman al Zawahiri e l’entusiasmo che trasuda da personalità, forum virtuali e comunicati ufficiali di gruppi associati al qaedismo fa pensare che il legame tra i due gruppi non si sia attenuato col tempo, come alcune delle più ottimistiche analisi suggeriscono.
Le moschee e la radio di Al Shabaab, il gruppo affiliato ad al Qaeda in Somalia, hanno festeggiato gli eventi afgani fino a notte fonda. Hayat Tahrir al-Sham (Hts), il gruppo che de facto controlla la regione siriana attorno a Idlib e che ha radici in al Qaeda (ma che ultimamente, alla ricerca di una legittimazione internazionale, nega un rapporto formale con esso), ha distribuito dolci alla popolazione locale per festeggiare la vittoria dei talebani. «La vittoria dei pazienti che ci deve ispirare» ha commentato una voce vicina al gruppo, indicando come i talebani e Hts costituiscano una nuova via del jihadismo volta alla lenta costruzione di uno stato islamico. Se, come si teme, il ritorno al potere dei talebani costituirà un supporto operativo al qaedismo è da vedersi, ma che abbia portato un’ondata di entusiasmo è evidente.
Reazioni diametralmente opposte arrivano invece dagli ambienti dello Stato Islamico. Al Naba, organo ufficiale dell’Isis, afferma che i talebani sono nemici dell’islam e agenti degli Stati Uniti coi quali Washington ha segretamente coordinato la conquista del Paese durante il meeting di Doha. Teorie complottistiche che mal nascondono l’invidia che serpeggia in ambienti Isis per un successo strategico e di propaganda dell’universo qaedista.
Lasciando le rivalità del mondo jihadista, deve far riflettere l’entusiasmo con cui è stata accolta la vittoria talebana negli ambienti dell’islamismomainstream, quello di gruppi che partecipano in elezioni, parlano di diritti umani e vengono spesso visti dall’Occidente come interlocutori moderati. Il leader di Jemaat- e-Islami, l’equivalente della Fratellanza Musulmana in Pakistan e nel sub-continente indiano, ha espresso la speranza che “il profumo” del governo islamico insediato dai talebani si sparga «nei quattro angoli del mondo». Hamas ha ufficialmente espresso le sue «congratulazioni ai talebani e la loro coraggiosa leadership per questa vittoria». In Turchia, se il governo di Erdogan non si è sbilanciato con dichiarazioni di aperto supporto, esprimendo solo ottimismo per le relazioni tra i due paesi, ambienti vicini all’Akp si sono sperticati in elogi per i talebani, lodando la loro determinazione e il loro rispetto della legge islamica.
Concetti simili arrivano dall’universo dei Fratelli Musulmani. Tra i simpatizzanti del gruppo in Occidente questi concetti sono spesso integrati da una narrativa anti-imperialista in cui l’aderenza alla sharia e la resistenza ad un’occupazione neo-colonialista si fondono e nella quale, però, ogni riferimento al rispetto di diritti umani è cinicamente omesso. Non bisogna andare lontano per trovare esempi. Hamza Roberto Piccardo, tra i leader storici dell’Ucoii, ha scritto su La Voce un articolo nel quale, dopo aver deriso lo sforzo per salvare «qualche centinaio di collaborazionisti» (gli interpreti afgani), fonde anti-imperialismo e islamismo in ottica anti- occidentale. «Qui non si tratta», scrive Piccardo, «di condividere l’ideologia dei mujahidin algerini, o quella dei vietcong e neppure quella dei talebani anche se con i primi e questi ultimi esiste un robusto tessuto comune: la fede islamica che ci accomuna. La questione di fondo è che i popoli possono permettersi di pagare un prezzo che i colonizzatori, gli invasori (compresi i collaborazionisti locali) non possono pagare. Bisognerebbe sterminarli, nel senso letterale del verbo, cioè fare «un deserto e chiamarlo pace». Opinioni legittime in uno stato libero, ma problematiche quando vengono da ambienti che si ergono a rappresentanti dell’islam italiano e interlocutori dello stato.
(Lorenzo Vidino è il direttore del Program on Extremism alla George Washington University)