Corriere della Sera, 21 agosto 2021
Biografia di Umberto Ambrosoli raccontata da lui stesso
Umberto Ambrosoli, cattolico, avvocato, sposato, tre figli. Come suo padre Giorgio. Le biografie sono quasi speculari. L’eredità è un orgoglio. È stata anche un peso?
«Non direi. Il fatto di avere davanti un esempio così rilevante è uno stimolo, la volontà di condividere la memoria è qualcosa che ho maturato nel tempo pesandone il valore: più sono conosciuti i buoni esempi, più è facile individuare un indirizzo di vita meno cinico e pessimistico. Il dominio, in molti accadimenti della vita, è relativo. Decisi di diventare avvocato, ma non per emulare il percorso di mio padre. Non avevo invece messo in conto di lavorare anche nel mondo bancario».
Eppure la sua tesi di laurea era indirizzata proprio lì: «Criminalità informatica nel sistema bancario»...
«La prospettiva era diversa, criminologica. Conobbi una persona che aveva una profonda esperienza sul fronte informatico bancario e mi permise di accedere ad alcune informazioni. Per me si trattò di approfondire un ambito molto interessante e divertente in un’epoca nella quale poco si sapeva di criminalità informatica».
Il tema resta attualissimo. Indica un problema irrisolvibile?
«Tutto è risolvibile, ma la consapevolezza del rischio è stata fino ad oggi inadeguata. Salvo nel sistema bancario che, infatti, ha investito moltissimo in tecnologia ed è quindi più protetto, Un criminale informatico ha maggiore convenienza ad agire su altri fronti».
È presidente della Fondazione Banca Popolare di Milano. Etica e denaro comportano inevitabilmente qualche contraddizione?
«No. Anzi, direi che l’impegno del mondo finanziario negli investimenti sostenibili dimostra l’opposto: il denaro come strumento per indirizzare eticamente lo sviluppo. È un’opportunità importante, oggi più accessibile che in passato».
L’immagine degli istituti di credito pare comunque tutt’altro che immacolata. Come spiega questa percezione?
«In una serie televisiva un avvocato americano è protagonista di una scena divertente. La persona che ha di fronte dice: voi avvocati avete una immagine pessima. Lui si volta e replica: c’è solo un ambito più odiato del mio, il suo, quello bancario. Beh, il mio punto di osservazione sta un po’ nel mezzo di questo guado. Se guardiamo la storia è chiaro come gli istituti bancari siano nati con finalità virtuose e che a tutt’oggi le perseguano nell’interesse dei clienti e dell’intera economia. La risposta del mondo bancario italiano in occasione della pandemia ne è l’ennesima dimostrazione. Come in ogni altro settore, sono intervenuti anche atti devianti, con effetti gravissimi proprio per il ruolo che le banche ricoprono nel sistema economico. Si è imparato dagli errori? Gli strumenti di controllo, interni ed esterni, sono sempre più pregnanti ed efficaci, ma soprattutto vedo banche che diffondono con convinzione al proprio interno un’autentica cultura della responsabilità. È quello il presidio più importante».
Candidato alla presidenza della Regione Lombardia nel 2013, battuto da Roberto Maroni. È pentito di quella scelta?
«Pentito no, perché in quel momento andava fatta. Una Regione importante si preparava al voto anticipato in seguito a fatti gravi, addirittura criminali. C’era l’aspettativa di una forte discontinuità. Faticai a prendere quella determinazione, con la politica di allora comunemente percepita tanto brutta e cattiva. Avevo 42 anni, si trattava di accantonare il mio percorso, inoltre ero preoccupato dalla non conoscenza delle dinamiche della politica, ma quell’aspettativa non poteva essere lasciata senza speranza. È stato fondamentale il sostegno di Alessandra, mia moglie. Sono stati quattro anni importanti, non completamente edificanti. Mi sono sentito a disagio nel toccare con mano le dinamiche della ricerca del consenso, costantemente anteposto alle finalità stesse dell’azione politica, sino all’irresponsabilità. Faccio due esempi. Durante il caso Stamina (metodo di cura delle malattie neurovegetative sprovvisto di validità scientifica, ndr) fu chiara l’espressione di una volontà politica più rilevante di qualunque evidenza fornita dalla scienza. E poi in occasione dell’elezione di Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica al secondo mandato. Partecipai come uno dei tre rappresentanti regionali, ma non facevo parte di alcun partito e potei osservare forse con più distacco quel momento di cortocircuito della politica. Mi colpì quanto fosse enfatizzata deliberatamente una pressione enorme per spingere verso la decisione, in una condizione di irreale emergenza. In piazza Montecitorio ci saranno state cinquanta persone, nei telegiornali sembravano migliaia, nessuno si preoccupò di raccontare davvero come stavano le cose, anzi quella tensione veniva gonfiata ad arte. Una situazione assurda perché non ci si piega ad una piazza che peraltro non esiste, né la si prende come alibi, soprattutto nel caso di elezione del presidente della Repubblica, affidata secondo la Costituzione, non certo al voto popolare».
Corrado Stajano ha intitolato il libro dedicato a suo padre «Un eroe borghese». Esiste ancora la borghesia?
«Per molti versi non esistono più le classi sociali così come siamo stati abituati ad identificarle sino a ieri. Esistono comunque molte persone disposte a creare realtà concrete al servizio della collettività. Lo misuro ogni giorno con la Fondazione Banca Popolare di Milano. Vedo l’impegno di chi cerca di risolvere un problema che non lo riguarda direttamente, ma della soluzione si assume la responsabilità. E non parlo soltanto di persone facoltose. Quanti uomini e donne assumono un incarico pubblico, in ogni comune, mettendo da parte professione e interesse personale per cercare di dare un contributo alla collettività? Moltissime. Sindaci, assessori, amministratori locali. L’impegno individuale, spesso silenzioso, di tutte queste figure è determinante».
Nel luglio scorso, ricordando suo padre, assassinato da un sicario ingaggiato da Michele Sindona l’11 luglio 1979, ha citato il vaso di fiori deposto dove cadde. Fiori che continuano a vivere oggi. Grazie a chi?
«A tutti coloro che hanno coltivato la memoria. Ad una consapevolezza pubblica che è cresciuta moltissimo. In un primo tempo la vicenda di papà non apparve chiaramente. Oggi incontro persone che mi dicono: la storia di Giorgio Ambrosoli è stata importante per prendere una decisione nella mia vita. Storie preziose, ecco, che vanno raccontate anche per ridurre la solitudine di chi si trova di fronte a un bivio. Siamo esposti a pulsioni negative, alla tentazione di perseguire un interesse personale incuranti degli altri o di approfittare delle debolezze altrui, ma esempi come quello di papà contribuiscono all’affermazione di una consapevolezza della responsabilità che è molto più diffusa rispetto a ciò che ci raccontiamo».
Nella sua di storia non c’è soltanto un padre-eroe ma anche un’«eroina in ombra», sua madre Annalori. È cosi?
«Senza dubbio, non soltanto in relazione alla vicenda di papà ma per ciò che ha fatto dopo, crescendo i miei fratelli e me con sentimenti solo positivi, senza mai cedere all’amarezza e al peso del vivere».
I suoi tre figli, Giorgio, Annina e Martino che idea si sono fatti della loro storia famigliare?
«Mostrano curiosità e orgoglio. Giorgio ha 18 anni, Annina 15, Martino 12, ciascuno ha elaborato ed elabora con i tempi e gli strumenti propri. Ogni tanto capita che facciano domande e possono contare anche su una nonna che ha un’ottima memoria e grande umanità. Abitiamo a Milano, vicino a piazza Giorgio Ambrosoli, e la cosa ha anche prodotto qualche momento particolare, come quando Giorgio, da bambino, portò a riparare la bicicletta dal ciclista che sta proprio lì e, imbarazzato, dovette lasciare il nome. O quando Annina, da piccolissima, leggendo la targa ci chiese se davvero il nonno era un supereroe».
«Se l’andava cercando». La frase venne pronunciata da Giulio Andreotti commentando l’uccisione di suo padre. Il perdono è un sentimento più forte di ogni altro?
«Non so se perdono sia, nel mio caso, la parola giusta. Mi è stato insegnato a non fermarmi su ciò che è accaduto, a non pensare che un singolo gesto basti per valutare l’identità di una persona. Un errore è un errore, una parentesi, non una vita intera. Anche di fronte a chi manifesta una diversità totale rispetto al mio modo di fare o di intendere, non vale il giudizio sommario. Può dire o fare cose che non condivido, ma magari è un buon genitore o compie atti belli. Quella frase di Andreotti, coerente con l’atteggiamento che egli ha avuto in tutta la vicenda Sindona, rappresenta un pensiero preciso: mettere prima se stessi rispetto alla responsabilità pubblica che si è assunta. Direi che è esattamente l’opposto dell’esempio di mio padre e penso che alla fine quella frase non abbia fatto altro che aiutare le persone a cogliere la differenza per poter scegliere da che parte stare».