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 2021  agosto 21 Sabato calendario

In morte di Gaia Servadio

Detestava il perbenismo, la psicanalisi, la political correctness, il cibo biologico, Woody Allen, la supponenza, la «cafonaggine» del Ring di Vienna e l’ipocrisia degli inglesi. Amava la lingua dei francesi, l’eleganza dei siciliani, la mondanità, la sapienza, l’autoironia e tutto ciò che è Medio Oriente. 
Gaia Servadio, che si è spenta ieri in una clinica romana, è stata una delle più vulcaniche e affascinanti scrittrici e giornaliste italiane. E non solo perché nei suoi ottantatré anni ha pubblicato più di trenta libri tra romanzi, saggi e biografie, e una quantità di articoli e reportage in italiano e in inglese, per il Corriere della Sera , Il Mondo di Pannunzio, il Times o l’Observer. Ma perché la sua curiosità era un treno lanciato a tutta velocità verso i traguardi dell’avventura e della conoscenza. «Purtroppo a volte faccio delle sciocchezze per la fretta. Ma almeno le cose faccio», diceva. Stare al passo con la sua produzione non era impresa per i deboli di cuore. Solo negli ultimi sette anni ha pubblicato cinque libri: dall’autobiografia Raccogliamo le vele (Feltrinelli 2014), alla saga Giudei(Bompiani 2021), ispirata alla propria famiglia. 
«Sono figlia della guerra», diceva. Quando parlava dell’infanzia, ricordava «la povertà indecente» degli anni passati a nascondersi, i cappottini fatti per lei e la sorella Pucci con le fodere delle poltrone, gli amici di Padova che si vergognavano della loro ebraicità, la morte e le macerie di fronte alle quali sua madre ripeteva «bambine, non guardate», e la nonna e la bisnonna uccise ad Auschwitz. 
A 15 anni era andata a studiare arte a Londra e non aveva perso tempo. Con la sua vivacità, la sua bellezza e certi spaghetti con le zucchine, si fece amici che le aprirono molte porte. Eppure, ammetteva, «dopo la prima cotta per l’Inghilterra, dietro la vernice del fair-play scoprivi l’ipocrisia, muffe di corruzione, bitumate di silenzio». E tuttavia da quel Paese si sentiva «tutelata». Anche se per la Brexit aveva solo indignazione. 
Nel 1967 pubblicò con Feltrinelli un romanzo osé — Tanto gentile e tanto onesta — che diventò un bestseller internazionale. Prese la tessera del Pci. Seguì sul campo la guerra dei Sei Giorni in Israele; intervistò i più temibili mafiosi per la stampa inglese; studiò il russo e andò a Stalingrado a rendere omaggio al sacrificio dell’Armata Rossa. Si sposò due volte: la prima con l’elegante, colto e ricchissimo storico dell’arte Willy Mostyn-Owen, il cui padre si era raccomandato che «poteva sposare chi voleva, purché non fosse straniera, comunista o ebrea»; la seconda con un cugino del primo marito, il più amabile dei gentiluomini gallesi, Hugh Myddelton Biddulph. I due figli maschi, Owen e Orlando, le hanno dato cinque nipoti che adorava. La figlia Allegra, erede della sua bellezza, è stata la prima moglie di Boris Johnson. 
Come Gaia Servadio riuscisse a scrivere tanto, e nel frattempo a imbandire la tavola della sua casa di Belgravia per «il meglio di Londra», era un mistero. Forse, di nuovo, la chiave era la fretta e uno spavaldo disinteresse per il perfezionismo; una cucina-sala da pranzo assai caotica; una conversazione brillante; molto vino e molta allegria. Da quel salotto sono passati Bernardo Bertolucci e Claudio Abbado, Eric Hobsbawm e Al Alvarez, Denis Mack Smith e Antonia Fraser, Isaiah Berlin e Vittorio e Camilla Adami, Inge Feltrinelli e John Pope-Hennessy. «Lo strano mestiere che mi ero scelta mi aveva portato a infilarmi in situazioni che a volte mi trasformavano la vita». In quelle «terre incognite» nacque l’amicizia con Mary McCarthy, Claire Bloom e Philip Roth, Francis Bacon e Jonathan Kent. 
Gli amori furono molti. Poi, come mi confessò in un’intervista «questa cosa degli innamoramenti se dio vuole si è spenta. Che seccatura. Perché essere innamorati rende insicuri, vorresti essere più bella, più giovane, una fatica…». E diceva: «Bisogna sfidare a duello il mondo politically correct, la burocrazia puritana: è piccola borghesia che finge di essere illuminata». Poi se la prendeva con un’altra delle sue bestie nere, e chiamava la psicanalisi la penitenza della borghesia. E così facendo tradiva il segreto di quella sua forza straordinaria: guardare sempre avanti e non fermare mai il treno.