il Giornale, 20 agosto 2021
Toscanini, prima rockstar del pianeta
Nei fragili equilibri che governano i rapporti fra dirigenza musicale e organizzazioni sindacali patrocinanti i desideri delle forze lavorative una delle pietanze più gradite è la cosiddetta tournée, operazione che porta prestigio e pecunia, equamente divise fra tutti i compartimenti coinvolti. Prima della pandemia non poche erano le Fondazioni lirico-sinfoniche italiane regolarmente invitate, soprattutto in Giappone ed Estremo Oriente (di recente nel ricco e dinamico Teatro di Muscat, nell’Oman).
I duri tempi pandemici hanno rosicchiato fino all’osso l’arrosto, riducendo il banchetto per la maggior parte a giri di poche date. E questo vale per le istituzioni che vantano maggior prestigio all’estero, la Scala da sempre e l’Accademia di Santa Cecilia con Antonio Pappano. Quando si leggono le cifre sciorinate nel libro di Mauro Balestrazzi, La tournée del secolo (LIM, pp. 354, 32), 125 concerti in 237 giorni; partenza e ritorno a Milano; due traversate oceaniche; 24.000 chilometri percorsi in treno fra Italia, Stati Uniti, Canada e ancora Italia, si rimane sbalorditi. Il libro narra, soprattutto attraverso l’eco della stampa, la storica tournée che Arturo Toscanini guidò fra il 23 ottobre 1920 e il 16 giugno 1921, con l’Orchestra che aveva creato e che sarebbe stata quella del costituendo Ente Autonomo del Teatro alla Scala.
Onusto dalla gloria raccolta nel periodo in cui resse le sorti della Metropolitan Opera di New York, Toscanini volle tornare a casa e rivoluzionare la Scala, sottoposta ad un profondo restauro triennale. In questo progetto Toscanini ebbe il pieno appoggio degli uomini giusti: la volontà operosa del sindaco di Milano Emilio Caldara, l’appoggio incondizionato del senatore Luigi Albertini, padrone del Corriere della Sera, la fattiva gestione dell’ingegner Angelo Scandiani, futuro Sovrintendente, restauratori da par loro del teatro a misura del formidabile artista. In attesa della riapertura con il leggendario Falstaff di Verdi, la fama di Toscanini crebbe fino a diventare quella dell’artista italiano più importante del mondo (erano ancora vivi Puccini ed Enrico Caruso, di cui si spargevano le prime allarmanti notizie sullo stato di salute. A Milwaukee, Toscanini si mostra preoccupato dalla salute dello storico tenore con cui lavorò negli otto anni al Met). Ogni teatro importante della penisola fece a gara per assicurarsi il passaggio. Storico l’omaggio a Fiume, un vero coraggioso atto politico, occupata dai Legionari di Gabriele d’Annunzio che arringa le «fiamme nere» additando l’uomo «scarnito come voi, ossuto come voi, nervuto come voi. La sua testa è intagliata nell’osso duro, tra mento e fronte, con quei profondi incavi che gli si formano tra orecchio e naso quando serre labbra e mascelle, con quel cipiglio che fa pensare alla guardatura selvaggia del cigno». Con la verga di sambuco ammirata dall’Orbo Veggente, Toscanini conquista le metropoli d’America e i suoi pubblici oceanici: a Kansas City è accolto dall’applauso di diecimila spettatori paragonato dalla stampa locale al tornado di Jack London. Anche nel Kansas comprendono l’italianità di un’Orchestra «che canta sempre: più luminosa nel timbro di qualsiasi tipica orchestra americana». Anche quando nel paragone la compagine italiana è carente, come nel raffronto con i fiati francesi portati pochi anni prima da André Messager, sono la vitalità e il controllo di Toscanini che suppliscono alla qualità dei singoli dando vita alla musica, «annullandosi quasi completamente nella musica». Ovunque il passaggio innalza il morale degli immigrati italiani alle stelle: a Philadelphia la locale comunità accoglie i musicisti e li accompagna per la città deponendo fiori ai monumenti a Washington, Verdi e Colombo e offrendo banchetti. Toscanini invece visita le città attraversate dalla tournée come un capo di Stato: l’umile figlio di un garibaldino parmigiano preferisce omaggiare di persona la tomba del Presidente Abraham Lincoln a Springfield. Malgrado rifiuti le interviste o risponda selvaggio di non sapere l’inglese a qualche reporter insistente o tronchi ogni discussione («Non sono un tenore!»), il diluvio di articoli di presentazione e di recensioni tocca vertici parossistici a cui aspireranno invano per decenni quei direttori abbagliati dai lustrini del successo. Spesso le lodi sono iperboliche (viene paragonato a Mosé o a San Bernardo «che conduce al trono del cielo»), ma è sincera la sensazione che un «Grande Italiano» convinca dubbiosi e schizzinosi (a New York e Boston il suo Beethoven e il suo Brahms «latino» non ottengono l’unanimità critica) che può dirigere a memoria autori tedeschi come Mendelssohn, Wagner, Brahms e Richard Strauss come il pubblico non aveva ancora sentito, mettendogli accanto (e sullo stesso piano) Rossini, Verdi e Martucci e i sinfonisti italiani moderni (Respighi, Pizzetti, De Sabata, Sinigaglia, Tommasini, Alaleona, Wolf-Ferrari).
Ovunque si coglie la straordinaria forza che emana da un uomo che non si ferma mai sugli allori, un uomo che con il suo «carattere» parmigiano burbero e intransigente «scava le forze del profondo e le rapisce al sommo, frena i tumulti e li riduce in sussulti», come arringava D’Annunzio, «fa la luce e l’ombra, fa il sereno e la tempesta, fa il lutto e il giubilo».