il Fatto Quotidiano, 20 agosto 2021
Novecento miliardi di utili nei paradisi fiscali
Com’è fatto un paradiso fiscale? Be’, a prima vista è un posto come un altro, ma al suo interno si assiste a un bizzarro fenomeno numerico: le società locali presentano bilanci con un normale rapporto tra utili pre-tasse e salari attorno al 30-40%, mentre quelle straniere che hanno base in quei magici luoghi riportano performance assolutamente fuori scala. Ad esempio le sedi di società straniere che hanno sede in Lussemburgo hanno un rapporto tra utili e stipendi del 600%: per ogni euro di stipendio che paga nel Granducato, una multinazionale ne accumula sei di profitti.
Com’è possibile? In realtà la risposta è nota da tempo: le grandi multinazionali spostano nei cosiddetti paradisi fiscali, attraverso operazioni intragruppo, profitti realizzati in altri Stati per pagare meno tasse. Quanti? La risposta per il 2018 è arrivata ieri: circa il 40% del totale, che fa oltre 770 miliardi di euro (900 miliardi di dollari, 250 miliardi di euro in più rispetto al 2015) con un conseguente abbassamento della loro aliquota fiscale del 10%. Per quelli a cui occorre un caso pratico citeremo Alphabet, la holding che controlla Google: secondo il suo bilancio 2017, la società ha fatto la bellezza di 23 miliardi di utili solo a Bermuda, una piccola isola nell’Atlantico in cui la tassa sulle imprese è casualmente zero.
I numeri sono estrapolati da un database – creato da tre economisti delle Università della California, di Copenaghen e di Berkeley (Gabriel Zucman, Ludwig Wier e Thomas Tørsløv) – pensato per mostrare dove le grandi corporation registrano i loro profitti e stimare quanti di questi vengono spostati per motivi esclusivamente fiscali, scegliendo dal menù delle norme in materia di tassazione quelle che più convengono: sono gli Stati, facendosi concorrenza fiscale a vicenda, a rendere possibile questa enorme elusione. Ovviamente il mare di capitali che ogni anno viene sottratto ai Paesi che li generano non è senza effetti: meno entrate fiscali a fronte di infrastrutture e servizi che la comunità mette a disposizione delle aziende, concorrenza sleale, statistiche inaffidabili sull’economia dei vari Paesi, l’accumulo di un enorme potere in mano a organismi economico-finanziari che si percepiscono di fatto come legibus soluti.
Queste pratiche hanno anche curiose ricadute geopolitiche, per così dire: le multinazionali Usa tendono a spostare nei paradisi fiscali una quota maggiore dei loro profitti (il 60%) rispetto al resto del mondo (il 40% in media) e in particolare ai concorrenti europei (25-30%): “Gli azionisti delle grandi corporation Usa paiono quindi – scrivono i tre economisti – i principali vincitori del trasferimento globale dei profitti”. Insieme, ovviamente, ai governi dei paradisi fiscali: anche se il loro prelievo è minimo (il 3,5%), la mole di capitali attirati gli garantisce notevoli introiti da tassazione. L’Europa – non tutta come vedremo – è invece la principale vittima di questa guerra.
E l’Italia? Anche l’Italia ovviamente è tra le vittime: nel 2015 perdeva poco meno di 20 miliardi di euro di profitti realizzati dalle multinazionali sul suo territorio, che erano diventati oltre 27 miliardi nel 2018 con una perdita di gettito fiscale calcolabile in 6,6 miliardi di euro (e solo di tasse sugli utili). E chi ha invece guadagnato sull’elusione subita dall’Italia? Sostanzialmente i paradisi fiscali europei: il Lussemburgo (11,5 miliardi di profitti provenienti dall’Italia), l’Irlanda (6 miliardi), i Paesi Bassi (4,1 miliardi), il Belgio (1,6 miliardi) e in misura minore Cipro e Malta (altri 3,5 miliardi vengono dirottati fuori dall’Ue, soprattutto in Svizzera).
Gli altri. Peggio ancora va alla Francia, che perde 40 miliardi di profitti e oltre 13 miliardi di tasse, e alla Germania, che vede prendere il volo più di 71 miliardi di euro di utili delle multinazionali e 21 miliardi abbondanti di incassi dell’erario. Non va meglio alla Gran Bretagna, che lascia per strada 100 miliardi di euro di utili e quasi venti di tasse. Anche in questi tre casi (nel 2018 Londra era ancora nell’Ue), i principali beneficiari sono i cinque paradisi fiscali targati Unione europea. La cosa notevole è che i profitti spostati in Lussemburgo, Irlanda & C. in genere non restano lì a lungo: il 77% dei profitti spostati da Germania, Italia e dagli altri Paesi finisce ai “concorrenti” interni, ma la metà prende la via di paradisi fiscali ancora più convenienti come Bermuda, Barbados o simili. Insomma, il passaggio nei Paesi Ue serve a togliere possibilità agli altri Stati membri la possibilità di intervenire (il mercato è unico anche se con regole fiscali differenti per ogni Stato).
Secondo il database di Zucman, Wier e Tørsløv, l’Europa è la principale vittima dell’elusione delle grandi compagnie: oltre il 35% dei profitti spostati viene dal Vecchio Continente, meno del 25% dagli Stati Uniti. Questo non vuol dire che la perdita degli Usa non sia comunque enorme: i profitti realizzati negli States e spostati in paradisi fiscali ammontano a circa 160 miliardi di euro, a più o meno 43 miliardi le tasse non incassate. Ovviamente in questo caso i principali beneficiari sono i paradisi off shore come Bermuda, Porto Rico, Hong Kong, Singapore, eccetera, ma i sei europei fanno comunque la loro parte accaparrandosi una quarantina di miliardi dei profitti in uscita.
Anche in Africa. Il fenomeno riguarda anche Paesi non ricchi. Ad esempio la Nigeriaperde il 25% delle tasse sui profitti realizzati sul suo territorio: quasi un miliardo di euro per la precisione, a fronte di circa 3 miliardi spostati nei paradisi fiscali, compresi ovviamente il Lussemburgo, l’Irlanda e gli altri Paesi europei della lista.
È a questa inaccettabile situazione che dovrebbe porre rimedio l’accordo sulla tassa minima globale su cui – sotto l’impulso del presidente Usa Joe Biden – si sono accordati decine di Paesi all’Ocse (compresa l’Italia). Un accordo “storico, inadeguato e promettente”, lo ha definito al Fatto Gabriel Zucman, uno dei tre autori del database da cui sono tratti i numeri qui sopra: “Storico, perché per la prima volta dei Paesi si sono accordati su un’aliquota minima. Inadeguato, perché l’aliquota minima ipotizzata (15%, ndr) è davvero troppo bassa. Promettente, perché non c’è alcun ostacolo che impedisca di arrivare al 25%”, generando “circa 170 miliardi di euro all’anno per la sola Unione europea, 3-4 volte più di quanto verrebbe raccolto con un’aliquota minima del 15%”. Problema: l’accordo su cui a chiacchiere c’è gran consenso per ora rimane sulla carta, a non dire che saranno i dettagli tecnici – ammesso che si arrivi al varo della tassa minima – a stabilire se siamo all’inizio di una nuova era o all’ennesima presa in giro. Per ora, l’effetto certo è che in mezza Europa è stata bloccata la cosiddetta “web tax”.