La Stampa, 20 agosto 2021
Intervista allo scrittore Rick Moody
L’americano Rick Moody insegna alla Brown University ed è uno scrittore sincero. «Scrivere è il solo modo che conosco per affrontare certi dolori», dice. Ed è quello che Moody fa da sempre non soltanto con i suoi romanzi e racconti – da Tre vite, edito da Minimum fax nel 2008, a Rosso americano, pubblicato dalla Nave di Teseo nel 2018 – ma anche per mezzo di quel genere a parte che è il memoir, in cui si era già esercitato con Il velo nero, uscito per Bompiani nel 2005 e poi riedito dalla Nave di Teseo. È infatti un secondo memoir il libro con cui torna ora ai suoi lettori sempre per la casa editrice di Elisabetta Sgarbi: intitolato La lunga impresa. Storia del mio matrimonio racconta quell’annus horribilis che è stato per lui e per la seconda moglie – la video-artista e regista femminista Laurel Nakadate – il periodo compreso tra l’ottobre 2013 e l’ottobre 2014, conclusosi poi con lo spiraglio di luce che almeno in parte ha risarcito l’esistenza della coppia tra l’inverno 2014 e la primavera 2015.
Ma in quei dodici terribili mesi Rick e Laurel hanno sperimentato di tutto: dalla sofferenza e dalla frustrazione derivanti dai ripetuti fallimenti di una terapia di inseminazione assistita allo strazio per la malattia e l’invecchiamento dei genitori di entrambi, e non solo. Perché per i due si è trattato di dover fare i conti altresì con la morte di persone care, con la vendita forzata dell’amata casa di campagna a causa dei reiterati furti, e da ultimo con il trasloco dall’appartamento di New York per via delle liti anche violente col vicinato. Una sequenza impressionante di eventi catastrofici originata, secondo Moody, dall’essere fortunosamente entrato in possesso di una cartolina maledetta, recante la firma autografa di Charles Manson.
«Per fortuna me ne sono liberato, e da quanto so la vita di chi ne è in possesso ora, un collezionista, non ha avuto conseguenze nefaste. Da parte mia però non riesco a liberarmi dall’idea che quella cartolina recasse con sé un karma negativo. La persona da cui l’avevo ricevuta, che ha letto il libro e con cui nonostante tutto sono rimasto in buoni rapporti, mi ha chiesto più volte scusa. Sta di fatto che per riuscire a raccontare ciò che è accaduto a me e a Laurel nel corso di quell’anno terribile ho dovuto far passare un po’ di tempo, riflettere a lungo su quanto era successo, trovare insomma la distanza giusta».
Che ruolo ha avuto la sua seconda moglie durante la scrittura di un libro così intimo, che a più riprese fa pensare a una lunga lettera d’amore?
«Laurel è in realtà la co-autrice di queste mie pagine, non solo perché vi compare in prima persona, ma perché le ha lette mentre vi lavoravo e mi ha aiutato a recuperare dalla memoria anche ciò che avevo in parte preferito dimenticare, a cominciare dalla sofferenza provata a causa dei ripetuti fallimenti della fecondazione assistita. Da parte mia mi sono reso conto che il racconto di quest’esperienza dal punto di vista di un uomo era un tassello mancante, ma necessario. Sta di fatto che in copertina, accanto al mio nome, dovrebbe comparire anche il suo».
Questo suo libro è intessuto di disperazione ma anche di speranza, ed è scritto con grande onestà: lei non fa sconti a sé stesso, già nel suo primo memoir non aveva nascosto ai lettori i problemi derivanti dalla depressione, dall’alcolismo, dalla dipendenza dal sesso. A chi ha pensato scrivendo queste pagine?
«Credo di essermi rivolto soprattutto ai miei figli. So bene di essere un uomo complicato, e che certi aspetti della mia personalità sono difficili da affrontare. Se ho scritto questo libro con tanta sincerità è perché volevo lasciare alle persone a me care qualcosa di vero. Certo mi rendo conto che non tutti i lettori possano voler entrare così a fondo nell’intimità di uno scrittore, ma per me si è trattato di un libro che dovevo scrivere, e che non potevo scrivere se non in questo modo».
Riandare a quei dodici mesi terribili è stato anche terapeutico?
«Non credo che scrivere sia davvero paragonabile a una terapia, non è che uno si senta meglio per il semplice fatto di buttare fuori ciò che ha dentro come sul lettino di uno psicanalista. Si tratta di qualcosa di più profondo. Il fatto è che le tragedie attraverso cui siamo passati non lasciavano spazio alla fiction. Per me non c’era verso di scrivere qualcosa di differente: in un modo o nell’altro, dovevo confrontarmi con quanto era successo».
Le è capitato di sentirsi a disagio durante la stesura del libro?
«Sì, parecchie volte. E mi sono ricordato del fatto che quando avevo scritto il mio primo memoir mi ero detto che non mi sarei più avventurato in un’impresa del genere. Ma quando capisci che scrivere è per te l’unico modo per non rimuovere certi eventi, eventi che hanno segnato profondamente la tua vita e quella delle persone che ami, a un certo punto capisci anche che non devi preoccuparti del giudizio altrui».
Lei è padre divorziato di una bambina amatissima, e il suo è anche un libro sul fallimento. Una delle frasi più citate di Samuel Beckett è quella che dice: ho provato, ho fallito, riproverò, fallirò meglio.
«La lettura di Beckett ha avuto un grande impatto su di me. Già con Il velo nero mi ero ritrovato a fare i conti con i miei fallimenti. Ciascuno di noi, pensando a ciò che ha fatto in passato, prova anche vergogna per non essere riuscito a far meglio. E La lunga impresa. Storia del mio matrimonio in fondo è anche il mio modo di prendere atto del fallimento del mio primo matrimonio e della fortuna che ho avuto nell’avere una seconda possibilità».
Quanto può essere difficile tornare alla fiction dopo aver scritto un memoir così intenso?
«In realtà è bellissimo. Sto lavorando a una storia completamente inventata, in cui compare anche un fantasma, e devo dire che scrivendo queste nuove pagine provo una sensazione di grande libertà».
In certe università Usa è nato il concetto di «appropriazione culturale», e si sostiene per esempio che uno scrittore maschio bianco privilegiato non abbia il diritto di scrivere storie attinenti a personaggi appartenenti ad altre etnie o classi sociali. Lei che cosa ne pensa?
«Penso che ho imparato un sacco di cose leggendo libri che appartengono ad altre letterature, da quella giapponese a quella islandese alla nigeriana, e che una delle mie allieve migliori è una studentessa navajo: leggendo le sue pagine ho scoperto una voce nuova e potente, capace di raccontare quel mondo, quella cultura, e ne sono stato felice. Allo stesso tempo, non posso fare a meno di pensare che la letteratura parla di noi esseri umani, e che, nonostante tutte le differenze che ci contraddistinguono, abbiamo davvero tanto in comune».