La Stampa, 20 agosto 2021
Zaki precipitato dal cielo
Il volo non era un tuffo nella disperazione, ma un salto nella speranza e ora che uno di quei corpi abbandonati al vuoto nel cielo di Kabul ha un nome, persino un numero di maglia, somiglia molto meno alle persone che si sono lanciate dalle due torri a New York. Loro avevano chiara la fine, Zaki Anwari si è aggrappato a un impossibile inizio.
Diciannove anni, calciatore della nazionale under 20, un ragazzo pieno di possibilità caduto da un Boeing C-17. Magari il suo non è il primo profilo a cui si pensa quando si immagina la fuga angosciosa dei tanti che cercano di lasciare l’Afghanistan a qualsiasi rischio. Era un uomo, rappresentava il suo Paese, ne sarebbe potuto essere l’orgoglio, giovane, amato, invidiato, poteva pianificare una via di uscita che avesse un minimo di senso, calcolare le probabilità, solo che gli è mancato il fiato e si è messo a correre. Troppo occidente nella sua adolescenza per non sentirsi subito nel mirino e troppa libertà nelle rincorse al pallone per rischiare di trovarsi senza. La scuola importante, frequentata dai figli dei diplomatici: Esteqlal High School, dove studiava lingue straniere e assorbiva sogni globali come diventare una stella, magari con l’Inter, la squadra per cui tifava.
Seguiva la serie A e la Premier, commentava i risultati via Facebook dove teneva un diario delle sue ambizioni: dribbling di parole su giornate che gli sembravano promesse. Fino all’ultima azione, disegnata con rigore e pubblicata così, come una tattica sulla lavagna: «Solo tu puoi essere il pittore della tua vita, non lasciare che altri usino il pennello, non lasciare che ti disegnino come vogliono». Lo ha scritto il giorno prima di coprire a falcate la strada per l’aeroporto. Voleva intrufolarsi sul volo, come tanti altri, probabilmente si sentiva candidato alla resistenza: abbastanza veloce, agile quanto basta per entrarci, muscoloso quanto serve per aggrapparsi, con il fiato per reggere la prova. Invece si è trovato in mezzo al caos e si è attaccato al carrello di atterraggio. Non sicuro di morire a modo suo, piuttosto deciso a farcela a ogni costo.
Nella sua quotidianità fatta di partite, amici e vestiti, «vorrei essere un influencer», non c’erano talebani. Loro uscivano solo dai ricordi di famiglia, come il cattivo delle fiabe. Ne era convinto e ha scritto più volte «sono fortunato». A giudicare dai commoventi messaggi apparsi dopo che si è diffusa la notizia della sua morte era vero. In tanti lo raccontano come un giovane uomo pieno di futuro. Il suo allenatore scrive: «Abbiamo perso un tesoro. Sarà ricordato». E molti lo chiamano «fratello» e lo ringraziano «per il tragitto fatto insieme». Prima una, poi dieci, poi una moltitudine di lettere senza risposta consegnate all’ignoto, «veniamo da Dio e a Dio torniamo» o alla memoria, «compagno caro la tua assenza mi segnerà». La nazionale afghana, i leoni di Khorasan, confermano il decesso quando ormai il Paese, chiuso in una morsa tra la rivolta e la paura, ha deciso di piangere un suo eroe. Altri cadaveri trovati dopo lo schianto sono stati bruciati in un cimitero vicino, secondo i testimoni senza neanche avvertire la famiglia.
Ma Zaki ha una faccia e soprattutto uno stile: il suo diario Facebook è una sfilata di desideri. Lui in giacca e cravatta, tutto in gessato eleganza, con la faccia di tre quarti, in posa come gli piaceva stare. Anche con la divisa rossa da calcio posava, con la sua numero 10 che ne sottolinea le capacità. Non si dà la 10 al più scarso. Si presenta in abiti da post hipster con la sciarpa a quadrettoni, l’anello con la pietra nera, i jeans sdruciti e poi in abiti orientali, con la tunica rosa fino ai piedi, però seduto su una panchina con il ciuffo a onda e lo sguardo da selfie: «Vi stupirò». Non voleva morire, al contrario. Si è mosso spinto dall’ansia, dal tormento, però un fantasista non si butta perché non ha idea di come uscirne, sa scartare le difficoltà o almeno è convinto di superare gli ostacoli. Credeva che quel carrello sarebbe stata la sua salvezza. Non c’era logica, ma una voglia di essere così evidente da sopravvivergli.