la Repubblica, 20 agosto 2021
Una lettera in cui la contessa di Castiglione si confessa
La contessa di Castiglione rappresentava agli occhi di tutti un autentico enigma, e lo rimarrebbe anche per noi se non avessimo le lettere che tra il 1858 e il 1863, anni cruciali della sua vita, scrisse a Giuseppe Poniatowski: una sorta di lunghissimo monologo in cui la giovane donna si racconta senza remore… Non è dato sapere quando esattamente “la Nicchia” e il “Vecio” – come si definiva lui – fossero diventati amanti, anche se Virginia si era certamente concessa all’amico prima del ritorno in Francia nell’autunno del 1860; tuttavia, se pure aggiungeva al loro scambio epistolare una tonalità più complice e piccante, l’intimità fisica non implicava agli occhi di lei un cambiamento significativo. Per Virginia il sesso non costituiva di per sé un fattore rilevante e poteva essere usato con uguale disinvoltura a fini politici e di affari, ma anche per ragioni sentimentali o ludiche. In ogni modo, è probabile che fosse stato il Vecio a prendere l’iniziativa… In quella primavera del 1859 non era solo il Piemonte ad affrontare una guerra in nome dell’indipendenza italiana: dal suo eremo sulla collina torinese la contessa Verasis di Castiglione ne stava conducendo una a tutto campo per conquistarsi la propria. Il primo obiettivo era quello di non tornare a vivere con il marito; il secondo, di garantirsene i mezzi. Vittorio Emanuele non aveva fatto nulla per impedire che venisse esclusa dai ricevimenti di corte, e Cavour, pur rattristato dai «guai di Ninì», aveva preoccupazioni più urgenti. «Pensi» scriveva al Vecio «che io son qui sola come una cagna, che tutti, senza eccezione, mi hanno voltato le spalle e abbandonata». E in una lettera di poco successiva ribadiva: «E io per il mondo senza casa senza tetto senza carrozza. E io son io, a 22 anni, non avendo mai visto un giorno di bene». Escludeva, in ogni caso, di tornare a Firenze, dove sarebbe ricaduta sotto la giurisdizione dei genitori e avrebbe condotto una vita «spezzata e disonorata». Sperava dunque di poter riprendere al più presto la via di Parigi, ma doveva prima ottenere il beneplacito dell’imperatore e le garanzie necessarie per ritornarvi «a testa alta». Quanto ai soldi, le era indispensabile rimanere in contatto con i suoi amici banchieri per sapere in anticipo su quali affari puntare speculando in borsa, come già aveva fatto a Parigi. Non uno di questi obiettivi poteva essere raggiunto senza l’aiuto di Poniatowski… Solo lui aveva infatti la possibilità di sondare i sentimenti di Napoleone III e capire quale poteva essere per Virginia la strada più sicura per riconquistarne il favore. L’importante, martellava lei, era fare presto: «Non credo che pensi più a me, ma penso non bisogna lasciarlo scordare. Se ci pensa bisogna prenderlo fin che è caldo e mi raccomando a lei per en trouver l’occasion ». E nemmeno in materia di affari c’era tempo da perdere: «Se in quest’anno non faccio niente, sono morta e sepolta per tutta la vita» asseriva senza mezzi termini. Sin dal 12 maggio, giorno in cui Napoleone III era sbarcato a Genova, Virginia era in attesa di una «buona occasione», ma la situazione era incerta. Dopo aver ricevuto dall’imperatore l’assicurazione che presto si sarebbero rivisti, i rapporti si erano interrotti, e lei era sulle spine. Per di più, convinto che ne fosse già a conoscenza, Cigala le aveva portato un dispaccio di Cavour in cui si comunicava che l’imperatore era stato un peu blessé (lievemente ferito), e lei aveva temuto il peggio. A prevalere era stata però l’indignazione per non esserne stata informata né dal poco «caritatevole» Poniatowski né dall’amante «inumano»: «Non immaginavano forse» scriveva al Vecio «che avrei potuto saperlo malamente e farmi scorgere, o per lo meno soffrire? No, nemmeno più il core ha adesso? Cosa vuol dire questo? La prego informarsene bene portando subito questa lettera al Vecchio e dicendogli tutto quel che si pote dire di me, se trova ancora delle parole à mon profit (a mio vantaggio), che non posso scrivere perché l’ho troppo con tutti per fare la commedia».
Quanto alla commedia del “core”, la lettera successiva non lascia dubbi sui sentimenti che Virginia nutriva per l’augusto amante. Ai suoi occhi l’imperatore era solo una cambiale che da un momento all’altro rischiava di scadere: «Vedo nei giornali che il Vecchio è coricato, e molto male, e non viene. Accidenti!!! Se ci crepa quello siam f… per questo bisogna spicciarsi, glie l’ho sempre detto. Chi ha tempo non aspetta tempo. Cosa ha? Domandi nouvelle. Per me dirà fâchée, en peine (adirata, preoccupata), quel che vuole, e intanto senta bene se non verrà punto… Ci vada subito per parte mia e dica che non scrivo per non seccarlo. Però se crede, ecco due righe, se no le bruci».
Si può pensare, però, che le “due righe” di circostanza che gli aveva scritto fossero alquanto affettuose, se il 26 maggio l’imperatore le rispondeva: «Una brutta caduta in carrozza per poco non mi è costata la vita, ma sono già quasi del tutto guarito. La mia destra gravemente offesa stenta ancora a maneggiare la penna. Senza questo malaugurato incidente avrei potuto partecipare alla campagna militare, e mi ripromettevo di venire a trovarvi. Con quanto piacere, amica mia, vi avrei rivista! Questa gioia mi è stata negata. Forse ve n’è un’altra più grande in serbo per voi? Grazie per la bella lettera. Credetemi sempre vostro affezionato. Raccontatemi tutto quello che accade intorno a voi, per filo e per segno. Addio ancora una volta. Vostro N.».
Decisa a non commettere gli sbagli del passato, Virginia chiedeva ansiosamente consiglio a Poniatowski: «Cosa devo fare? Nulla è troppo poco, qualcosa è troppo. E poi, come comportarsi davanti alla gente? 1) avere l’aria di S.F.ene (StraFottersene), essere allegra e non parlarne mai? 2) avere l’aria triste e innamorata e parlare alla lontana? 3) Vittima? Ma per essere quest’ultima bisogna che lo vedano, che se ne persuadano».
Una lettera dopo l’altra, la Clausewitz in sottana continuava a passare in rassegna tutti i possibili scenari, pronta, da vera professionista del palcoscenico, a interpretare tutte le parti. Dopo aver ricevuto dall’imperatore una lettera «corta e poco buona», capiva di dovere correggere il tiro: «Io lo conosco bene adesso quel vecchio cocciuto. Si è avuto a male che io abbia parlato tanto di lui nella mia lettera, ma lei non mi ha detto che bisognava fare l’innamorata e l’ho fatta. So fare la pettegola, so fare la modesta. A tempo so piangere, a tempo so ridere ma qui non so più cosa fare e senza istruzioni farò delle bêtises”.
E non si stancava di sottoporre a Poniatowski nuove strategie epistolari di cui era la prima a prendersi gioco: «Non rida però di queste mie lettere amorate se no mi farà perdere il filo. Il Vecchio bisogna tenerlo caldo e per questo tenerlo accanto al fuoco. Una volta lontano diventa freddo e freddo è ghiaccio come tutti i cor contenti. Bisogna approfittare di lui prima che crepi…».