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 2021  agosto 19 Giovedì calendario

Quel tweet con cui Trump annunciò il ritiro dalla Siria

Nella casistica delle clamorose fughe militari americane come il Vietnam e l’Afghanistan, esiste anche una variante curda: un ritiro senza ritirata. Nell’ottobre del 2019, inaspettatamente e umiliando i suoi generali, con un tweet Donald Trump annunciò il richiamo delle truppe americane dal Nord della Siria.
Erano 2.500 uomini altamente addestrati che insieme alle milizie curde avevano combattuto e sconfitto l’Isis, lo Stato Islamico. I curdi erano stati alleati fondamentali in quelle feroci battaglie: il senso di tradimento verso i compagni d’arme fu più forte dell’aver lasciato oggi al suo destino l’esercito afghano.
Attratto dai despoti, Trump aveva semplicemente preferito il turco Recep Tayyip Erdogan ai curdi. I reparti speciali americani furono visti caricare i loro mezzi blindati, lasciare la regione di Rojava e andare verso Est, l’Iraq. La smobilitazione era stata ordinata da Trump il 19 ottobre.
Un mese dopo gli americani erano ancora lì, leggermente più a Est ma sempre a fianco dell’SDF, le Forze democratiche siriane guidate dai curdi. Non solo, nella regione curda fra Siria e Iraq, gli Usa continuavano anche a garantire che l’essenziale produzione di petrolio continuasse. 
A fine novembre il Central Command, che coordina tutte le operazioni nel Medio Oriente allargato, annunciava che la presenza americana in Kurdistan non aveva «una data di scadenza».
L’Afghanistan è un’altra storia: in Siria non ha ancora vinto nessuno, nemmeno Bashar Assad, nonostante l’aiuto russo e iraniano; il successo dei Talebani è invece completo e indiscutibile. Tuttavia cinesi, russi e iraniani, i più diretti interessati all’Afghanistan post-americano – oltre al Pakistan – si chiedono se gli americani li abbiano messi di fronte a una grande opportunità o a un imminente pericolo. Affari o destabilizzazione?
I Talebani continuano ad affermare di non essere gli stessi di vent’anni fa. La conferenza stampa di martedì a Kabul è stata straordinaria per il solo fatto di essere stata convocata, ma non rassicurante. 
Affermare senza ulteriori spiegazioni che «le donne saranno libere nel quadro della Shari’a», non vuol dire nulla. La Shari’a indica un “cammino” ampiamente interpretabile in una religione come l’Islam che non ha un capo come quella cattolica. 
La libertà delle donne afghane potrebbe dunque essere uguale a zero, come vent’anni fa. Allora però nessuna frequentava la scuola: oggi tutte, e alcune migliaia sono all’università; quando arrivarono gli americani nel 2001 non esistevano i social; oggi il 70% degli afghani 
ha un cellulare.
Cinesi, russi e iraniani (come gli americani) da tempo trattano con i Talebani: i primi due cercando di mettere le mani sulle risorse naturali dell’Afghanistan. 
Non essendo stati in guerra per vent’anni, hanno più opportunità per far valere i propri interessi economici e ottenere assicurazioni sulla sicurezza alle proprie frontiere. Se i Talebani non rompessero con chiarezza i rapporti con al-Qaeda e Isis, il problema non sarebbe solo americano ma anche loro.
Per questo i Paesi vicini sono interessati ma cauti: continuano a non riconoscere formalmente il nuovo potere a Kabul, una decisione considerata prematura. Neanche 48 ore dopo la conquista di Kabul a Jalalabad, l’importante città sulla strada per il Pakistan, centinaia di afghani hanno organizzato una manifestazione di protesta contro la presa del potere talebano. 
Una sfida coraggiosa: hanno sventolato le stesse bandiere nere-rosse-verdi dello Stato sconfitto, che il giorno prima nel palazzo del governo,
nella capitale, gli studenti coranici ammainavano, sostituendole con le loro.
La situazione è dunque fluida: quello che accade ora potrebbe essere diverso da ciò che l’Afghanistan sarà fra un mese o un anno. L’arrendersi senza combattere di molti comandanti militari dell’ancien régime e dei capi tribali potrebbe essere stata una scelta tattica, rinviando lo scontro in momenti più propizi. O forse i Talebani riusciranno a trasformarsi e a formare un governo di unità nazionale.
Per questo la variante curda del ritiro senza un vero ritiro non è irragionevole: una presenza americana economica, non militare. I principali partner della crescita del Vietnam sono gli Stati Uniti. Fu un ex combattente, il senatore repubblicano John McCain, pilota abbattuto sopra Hanoi e prigioniero per sei anni, il primo sostenitore dell’amicizia con l’ex nemico.