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 2021  agosto 19 Giovedì calendario

Francesco Conz, collezionista delle reliquie di artisti

Ha detto una volta Francesco Conz: «Se ho fatto quel che ho fatto, è solo perché volevo farlo». Una considerazione che vale riferita alla sua vita, ma ancora di più, alla sua collezione. Entrambe dissennate ed eccessive. Entrambe votate allo sperpero.
La misura, è noto, non è un criterio che ispiri mai un collezionista, ma nel caso di Conz, la sua passione ossessiva per l’arte, unita a un maniacale impulso all’accumulazione hanno fatto sì che, in poco più di trent’anni, egli finisse per entrare in possesso e per raccogliere un numero impressionante non solo di opere, ma anche di oggetti appartenuti o legati, in qualche modo, a coloro che di quelle opere erano gli artefici. Nonostante potesse sembrare problematico anche solo riuscire a valutarne le proporzioni, da qualche tempo il patrimonio di Conz è stato finalmente radunato, ordinato, catalogato, e ora occupa un gigantesco fabbricato dai muri di cemento, nel quartiere di Charlottenburg a Berlino. Padiglioni di impressionante vastità, scaffalature di metallo che toccano il soffitto, schedari disposti in fila lungo le pareti, che accanto a cataste di corrispondenza e a cumuli di fotografie, accanto a quasi più di 2000 opere custodiscono circa 1000 “reliquie”.
Conz aveva un’idea fanatica dell’arte, che considerava come una sorta di religione con i propri precetti, le proprie liturgie e, naturalmente, le proprie divinità: gli artisti. Un culto, quello per gli artisti, che Conz non limitava alle loro opere ma che aveva allargato agli oggetti, ai residui, agli scarti della loro vita quotidiana (le loro automobili, la biancheria intima, i piatti nei quali avevano consumato i pasti e su cui si erano incrostati gli avanzi di cibo, le pantofole, i mozziconi delle loro sigarette) elevati al rango di reliquie, di reperti sacri e forse miracolosi.
«Preferisco le reliquie degli artisti, ai denti dei santi» dichiarò un giorno a John Windsor, giornalista inglese e collezionista a sua volta, possessore di una delle più grandi raccolte al mondo di filo spinato, che considerava un’invenzione più significativa per la storia dell’umanità del mulino a vento, della lampadina elettrica o del motore a scoppio.
Conz nasce a metà degli anni Trenta del secolo scorso a Cittadella, da un’agiata famiglia di industriali appartenente alla nobiltà austro-ungarica trasferitasi in Veneto nell’Ottocento. Dopo aver frequentato di malavoglia e senza laurearsi i corsi di economia, lascia l’università e trascorre i cinque anni successivi in giro per l’Europa, praticando molti e diversi mestieri. A Montecarlo si guadagna da vivere facendo il cuoco a bordo di uno yacht. A Londra lavora come vetrinista da Liberty, in Regent Square. A Parigi entra a servizio dai duchi di Windsor, con le funzioni di domestico incaricato di badare ai carlini di famiglia (la prima raccolta della sua vita la riunisce forse in quel periodo, collezionando un significativo numero di menù, adesso conservati a Berlino, che documentano i pasti di Edoardo VIII° e di Wally Simpson).
Quando torna in Italia avvia un laboratorio in cui si restaurano pitture su legno, si eseguono lavori di laccatura, si realizzano tavolette decorative, in quello stile un po’ mesto chiamato “falso antico”. Un’attività che gli rende economicamente ma che lo scontenta. Vuole avvicinarsi a quella che definisce «la creatività autentica». Trascorso qualche anno vende il laboratorio, investe il ricavato e ciò che resta del patrimonio di famiglia in una galleria a Venezia e inizia a esporre e a commerciare opere d’arte contemporanea: dal concettualismo alla pop-art. Non gli ci vuole molto, peraltro, per disamorarsi di quel genere di cose: «roba...» dice «che è troppo facile, gentile e ben organizzata». Nel 1973 a Colonia conosce Joe Jones e Günter Brus. Esponenti dell’Azionismo Viennese e di Fluxus. i due teorizzano un’arte immediata, totalizzante, multisensoriale. «Un’arte – come dicono – senza memoria e disposta a tutto». Dopo un incontro a Vienna con Hermann Nitsch, colui che diverrà il massimo rappresentante dell’Azionismo, Conz compie un viaggio a New York venendo a contatto con altri esponenti delle correnti artistiche più radicali: Nam June Paik, Jon e Geoffrey Hendricks, Al Hansen, Charlotte Moorman che finiscono per convertirlo definitivamente a una concezione dell’arte in cui a prevalere è soprattutto la dimensione del gioco, dell’effimero, in cui la linea di divisione tra le diverse discipline è abolita, in cui il corpo è un mezzo d’espressione e l’opera è talvolta solo l’epilogo di un atto fisico. Tornato a Venezia non vuole più saperne di quelle opere che possono essere moltiplicate e riprodotte all’infinito. «Di quei quadri che», dice, «si appendono al muro. Che si comprano a 10 e poi si vendono a 20».
Liberatosi della galleria si trasferisce a Verona in un vecchio stabile di due piani, in una stradina, vicolo Quadrelli, che sbuca sul Lungadige. Tutta la casa, dal tetto alle cantine, si riempie col tempo delle opere dei suoi artisti. «Nessuno le vuole ma le cose cambieranno», ripete, «sono i Picasso del futuro». A Erbezzo, piccola località a nord di Verona a ridosso della provincia di Trento, Conz stabilisce la sua residenza estiva che chiama Museo Segreto. Secondo Walter Benjamin ogni passione, ma in particolare quella del collezionista, confina con il caos. Chi ha potuto visitare il Museo di Erbezzo ha provato la sensazione che Conz mirasse ad abolire quel confine. Dal di fuori l’aspetto era quello di una modesta casa di campagna, solida, e con poche pretese di eleganza. Una volta all’interno ci si muoveva in un misterioso deposito dove erano stati accumulati, senza alcuna regola, o forse con un criterio di cui solo il padrone di casa conosceva il segreto, cumuli di opere d’arte che sembrava volessero celebrare la bellezza e il fascino dell’inconsueto, ma anche del banale, dell’eccentrico ma anche del quotidiano, del bizzarro ma anche dell’insignificante. Verso la fine della sua vita, Conz si ritrova in una condizione prossima alla miseria. Nell’impossibilità cioè di pagare in tempo le bollette o di saldare alla scadenza l’affitto di casa. Nei periodi più grami di concedersi due pasti decenti al giorno. Nel 2003 viene aggredito brutalmente da alcuni teppisti, un episodio dai contorni mai del tutto chiariti, che gli procura una lesione della spina dorsale e che per sette anni, fino al giorno della sua morte, lo condanna su una sedia a rotelle.