Specchio, 15 agosto 2021
Ritratto di Jude Law
Ho conosciuto Jude Law grazie a Paolo Sorrentino, che me lo presentò mentre stava preparando Il Giovane Papa. Grazie all’intercessione di Paolo, accettò il mio invito a partecipare alla Festa del Cinema di Roma, ma quello che mi colpì immediatamente fu la gentilezza di modi. Può darsi che ciò sia dovuto al modo con cui mi aveva conosciuto, ma già nel corso della nostra prima conversazione mostrò un sincero interesse per la mia attività e la mia formazione professionale. Solo in seguito capii che due elementi che lo affascinano profondamente, e ne formano il carattere, sono il rapporto che ognuno ha con le proprie radici, e la relazione tra talento e tecnica professionale.
Non che gli manchino atteggiamenti da divo -in occasione di una festa a casa di Paolo, si presentò con un enorme cappello- ma bastano due chiacchiere per comprendere che dietro l’apparenza c’è qualcosa di profondamente sincero nel modo in cui si confronta con l’interlocutore. È nato 51 anni fa a Lewinsham, un sobborgo di Londra, da due professori che lo battezzarono David Jude Heyworth, ma scelsero immediatamente di chiamarlo con il secondo nome: «In parte per omaggiare il romanzo di Thomas Hardy, e in parte la canzone dei Beatles».
Ha scelto di diventare un attore sin da piccolo, lavorando a teatro con il minimo della paga. I primi tempi non poteva permettersi un appartamento, e divideva la stanza con un altro giovane destinato a una grande carriera: Ewan Mac Gregor. La solida formazione sui palcoscenici lo porterà in seguito a trionfare sia nel West End che a Broadway in Amleto, Les Enfants Terribles e Anna Christie, spettacoli per cui ha avuto due candidature ai Tony. Non ha mai disdegnato la televisione, e ha lavorato anche per una soap opera chiamata Families, prima di interpretare Sherlock Holmes, ruolo che ha ripreso in seguito con enorme successo. Dopo qualche piccola partecipazione, si è messo in mostra in Wilde, la biopic sullo scrittore irlandese, dove interpretò Bosie, l’amante che ne causò la rovina. «Devo la mia popolarità a uno dei peggiori bastardi della storia», dichiarò, ma fu chiaro a tutti che era dotato di due talenti che raramente vanno di pari passo: una notevole avvenenza fisica e una indubbia qualità recitativa. Per usare il linguaggio del cinema «fa l’amore con la macchina da presa», e ripensando agli inizi ricorda con ironia: «Diciamo la verità, sono diventato famoso quando mi sono mostrato nudo». La rivista People lo elegge «uomo più sexy del pianeta» mentre comincia a essere scritturato dai maggiori registi del mondo, a cominciare da Steven Spielberg, che lo ha voluto in A.I., Mike Nichols, che lo chiama per Closer e Clint Eastwood, che lo ha diretto in Mezzanotte nel giardino del bene e del male.
È il periodo in cui inizia la collaborazione con Anthony Minghella, che gli frutta due candidature agli Oscar. Ne diviene intimo amico, e lo ricorda con commozione: «Era un regista preparatissimo, chissà quanti altri bei film ci avrebbe regalato, e sapeva come ottenere il meglio dai suoi attori: per recitare nel Talento di Mr.Ripley ho imparato a suonare il sassofono e per interpretare una scena mi sono rotto una vertebra». Soffre tuttora per il fatto di essere chiamato per la sua avvenenza, e forse per reazione parla spesso di quanto ha appena letto: in uno dei nostri primi incontri mi parlò dell’Utopia di Tommaso Moro, dal quale era rimasto colpitissimo. Nel giro di poco tempo lo chiama anche Martin Scorsese, sia in The Aviator che in Hugo, Wes Anderson in Grand Budapest Hotel, ed è sintomatico che abbia interpretato i remake di Alfie e Sleuth, nei ruoli che aveva immortalato un’icona del cinema inglese come Michael Caine. L’interpretazione che preferisco è quello di Gattaca, il bel film di fantascienza di Andrew Niccol nel quale interpreta un personaggio confinato sulla sedia a rotelle: il contrasto tra la prestanza fisica con quella tragica condizione contribuisce a immortalare un ritratto struggente.
Ed è lui il primo a elogiare quel film: «È stata la prima volta che mi trovavo a interpretare una sceneggiatura nella quale credevo, e poi ho visto sullo schermo qualcosa di simile a quello che speravo: c’era molta qualità in tutti coloro che hanno lavorato in quel film». Ma tra i registi contemporanei, oltre a Jacques Audiard, la sua predilezione è per Michael Haneke: «Secondo me è il più interessante regista del momento, e per lui imparerei il congolese». È perfettamente consapevole del fatto che mai come oggi nel cinema contemporaneo un attore è valutato per il successo del suo ultimo film, e alterna il cinema d’autore a quello commerciale, con occasionali puntate nel teatro. Questo non lo distoglie dall’attivismo nella lotta per l’ambiente, per la difesa degli animali, e la filantropia, che ha indirizzato sia per la ricerca per il cancro che per finanziare il Young Vic, il teatro in cui ha lavorato in gioventù. È molto riservato e detesta i paparazzi: «Quando li vedo mi viene voglia di lanciargli spazzatura», e non parla volentieri del rapporto con Sienna Miller, sul quale si limita a dire «mi vergogno di averla fatta soffrire». Parla poco anche delle relazioni con Sadie Frost, Samantha Burke e Phillipa Coan, con le quali ha avuto sei figli: una grande famiglia allargata, alla quale cerca di dedicarsi, facendo spesso i salti mortali. Quando si fida del suo interlocutore ama raccontare aneddoti avvenuti lungo la carriera, come quando l’agente lo chiamò per dirgli che aveva in linea Spielberg e a lui venne immediatamente un calo di voce.
E poi lo sconcerto con cui ha letto nella sceneggiatura di A.I. il cartello «4000 anni dopo»: «Soltanto un genio come lui, e insieme a lui Stanley Kubrick, che avrebbe dovuto dirigere il film, può immaginare qualcosa del genere. Il film avrebbe meritato più successo, ma la sua bellezza e il suo interesse è nell’essere così cupo: qualcosa che oggi non si perdona, se è legato a un dato etico».