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 2021  agosto 15 Domenica calendario

È ora di riabilitare il qualunquismo

«Al lupo, al lupo: sta tornando il qualunquismo!» – questo è stato l’allarme lanciato da media e partiti al primo apparire dei Cinque Stelle. L’equiparazione del M5S al movimento del Torchietto era troppo facile, troppo conveniente, troppo consolatoria per non essere proposta con forza. Facile, perché uomo di spettacolo era il commediografo Guglielmo Giannini e uomo di spettacolo è il comico Beppe Grillo, imprenditori entrambi di scontento e protesta. Conveniente, perché qualunquismo fa da sempre rima con neofascismo e se si riesce a equiparare i grillini con i qualunquisti, il gioco della delegittimazione è fatto. Consolatoria, perché effimero è stato il movimento di Giannini e quindi effimero sarebbe stato – questo l’auspicio sotteso all’equiparazione – anche il movimento di Grillo.

L’Uomo qualunque (Uq) era e resta il parametro di giudizio per eccellenza di delegittimazione nei confronti del «regime dei partiti»; della pretesa della politica di sovra-determinarsi rispetto alla società civile; di rivendicare una preminenza dello Stato sul cittadino; di considerare l’antipolitica un virus che infetta irrevocabilmente la democrazia, e da ultimo, dell’autoattribuzione, da parte di minoranze consce, della missione di guidare i cittadini comuni, per definizione inconsapevoli.
Ora che i Cinque Stelle, con la presidenza Conte, sono in dissoluzione come movimento eminentemente antipolitico, l’accusa di essere gli epigoni dell’Uq è stata di colpo derubricata, o meglio annullata. Quelli che fino a ieri erano gli epigoni di Giannini, sono ora una «costola della sinistra» di dalemiana memoria, Poco ci manca che siano insigniti del titolo di «sinceri democratici». Nessuna rivisitazione, tanto meno alcuna revisione critica dell’equiparazione originaria con l’Uq. 
Eppure, brucia il riscontro della tenace persistenza, nell’Italia profonda, di una sorda opposizione alla cultura politica prevalente nella storia repubblicana. Resiste la raffigurazione dell’Uomo qualunque come primo interprete dell’opinione pubblica renitente all’impegno civico e, in quanto tale, nemico della democrazia: vero cavallo di Troia del neofascismo, inabissatosi, sì, nelle viscere del Paese, ma sempre pronto a rialzare la testa. Una raffigurazione di comodo, coerente con la vocazione del mainstream democratico a ricacciare nel girone neofascista ogni espressione politica eterodossa, anche quelle intrise di venature liberali.
Non si vuole con ciò negare che il qualunquismo abbia offerto, a ridosso della caduta del fascismo, un ombrello ai nostalgici ancora senza partito. È indubbio che Giannini non andò troppo per il sottile nella denigrazione del «regime dei partiti». Non si può nemmeno sottacere che sparse a piene mani il disprezzo per la nascente democrazia partitica, bollandola come «regime antifascista» da parificare al «regime fascista». Fu certamente tutto questo, ma fu tanto altro, anche se perlopiù sottotraccia e in parte soffocato da una consapevolezza incompiuta. Diede voce, anche se con un linguaggio volgare, sarcastico, pirotecnico, all’insofferenza nei confronti dei partiti, contribuendo ad amplificare una corrosiva critica al trionfante partitismo. Riuscì a fornire addirittura una rappresentanza elettorale agli «apoti», all’Italia (forse «maggioranza silenziosa») che «non ci sta» – allora come oggi – ad assecondare la vocazione pedagogica, costruttivista, ortopedica della politica.
Lo «Stato Amministrativo» di Giannini non era solo la strampalata richiesta di una politica a misura di «un buon ragioniere che entri in carica il primo gennaio e se ne vada il 31 dicembre». Il linguaggio del giornale «L’Uomo Qualunque», dovendo far breccia in un pubblico digiuno di politica e allergico al politichese, era per forza di cose ficcante, le sue espressioni grossolane. Sul foglio qualunquista si ritrovano pressoché tutte le invettive contro la politica e i partiti destinate a divenire il ricco repertorio cui successivamente tutte le forze animatrici dell’antipolitica attingeranno a piene mani
Se non ci si limita, però, a considerare le parole d’ordine, gli slogan propagandistici lanciati dal battagliero settimanale, per forza di cose grevi, e si vanno a sfogliare le pagine più riflessive, come quelle della rassegna «Libera discussione sui temi dell’Uomo qualunque», si scopre che il Fronte di Giannini è mosso da un’ispirazione meno sbrigativamente liquidatoria della politica. Questa è, anzi, nobilitata come «l’arte di amministrare con saggezza la cosa pubblica, di provvedere ai bisogni collettivi della società, al fine di promuovere il benessere di ciascuno di noi». Quella contro cui il movimento si ribella «non è la politica – si legge nello stessa nota – nella quale trovano posto tutti i giusti e santi ideali, ma la degenerazione, la corruzione, l’opposto della vera politica». Il sentimento antipolitico, di cui Giannini si fa interprete, è grezzo e triviale, ma resta pur sempre inscrivibile all’interno di un orizzonte democratico. Come ha ben colto Dino Cofrancesco, «c’era in lui del “tersitismo” – il dileggio dei potenti – ma, soprattutto, quella desacralizzazione della politica che, comunque la si voglia giudicare, è una conditio sine qua non di una democrazia liberale, laica, senza complessi».

Della politica l’Uq respinge soprattutto – come ha appropriatamente scritto Danilo Breschi – la sua «deriva costruttivista e prometeica». E ancora, per usare le parole di Giovanni Orsina, osteggia l’«eccesso di ideologia», mentre formula «il desiderio di riportare il più possibile la politica alla buona amministrazione». Contrasta infine la pretesa dello Stato di «impicciarsi nella produzione e nel commercio», di «mettere i bastoni fra le ruote a quelli che devono commerciare e produrre», contravvenendo alla regola, questa sì indubbiamente liberale, di «lasciar fare, lasciar passare».
Quella di Giannini era, insomma, la chiamata alle armi degli apoti di prezzoliniana memoria, di quelli che «non la bevono», che mal sopportavano allora – come oggi – uno Stato onnivoro e inefficiente, una burocrazia pletorica e invadente, partiti chiacchieroni e inconcludenti. «Male bestie» della democrazia partitocratica le apostrofò Luigi Sturzo, il fondatore del Partito popolare e strenuo oppositore della dittatura mussoliniana.
Difficile trovare nel M5S delle origini la stessa impronta «liberale». Il suo «cittadino» non è l’«uomo qualunque». Rinvia alla dimensione eminentemente politica della polis. Vagheggia una piena partecipazione. Evoca la rousseauiana «volontà generale». Punta alla democrazia diretta. Spodesta il Parlamento per insediarsi al suo posto. Al grido di «Onestà, onestà, onestà» si erge a moralizzatore dello Stato e della stessa società. 
L’Uomo qualunque invece diffida della politica. Si vanta di disertarla. Per amministrare lo Stato gli basta un ragioniere qualsiasi. È ostile «all’eroe, al capo, al re, al duce». Desidera solo che «nessuno gli rompa le scatole». Esalta l’individualismo. La sua è ipo-politica. Il contrario del grillismo, che nasce e si afferma nel nome dell’iper-politica. Per siffatte ragioni la piena equiparazione tra i due non regge. Ne oscura la diversa matrice: liberale nell’Uq, illiberale nel M5S.