Robinson, 14 agosto 2021
Annie Vivanti, ombra inquieta di Carducci
«Batto a la chiusa imposta con un ramicello di fiori / Glauchi ed azzurri come i tuoi occhi, o Annie» sono i versi di Giosuè Carducci in epigrafe sulla tomba di Anna Emilia Vivanti detta Annie, scrittrice e poetessa tra le più eclettiche della letteratura europea. Vengono da una poesia intitolata ad Annie, di cui la destinataria ricorda la genesi: «Mentre egli veniva a vedermi, una vecchietta gli aveva dato un ramoscello di giacinto azzurro, e con questo egli venne a battere alla mia porta. Quando gli fu aperto, egli entrò, e senza parlarmi, gesticolava vagamente con il glauco fiore come battendo il tempo a qualche suo ritmico pensiero, andò a sedersi al pianoforte chiuso, prese un foglietto di carta, e scrisse. Compose le sei brevi strofe sempre battendo col fiore il ritmo, e quasi cantando le parole fra sé. Scrisse lentamente, deliberatamente, senza mai smettere, né esitare, nella bella scrittura di cui era tanto orgoglioso». Quello tra Vivanti e Carducci fu un amore lungo e intenso e conobbe diverse trasformazioni, i due restarono legati anche dopo il matrimonio di lei con l’irlandese John Chartes. Tutto era cominciato con l’esordio poetico di Annie: leggenda vuole che l’editore Treves non fosse convinto di pubblicare la sua raccolta e avesse mormorato qualcosa come «se solo ci fosse una prefazione di Carducci…» Detto fatto: la prefazione era arrivata e così anche la stampa.
Vivanti, però, si discostò presto da quel battesimo, orientandosi verso una strada tutta sua, ed ebbe immensa e autonoma fortuna come scrittrice di prosa grazie a una scintillante sagacia che le permetteva di scrivere senza scopi edificanti e con grande maestria letteraria. I suoi romanzi e racconti vendevano molto e venivano tradotti in molte lingue, mentre la sua vita mondana ed eccentrica era nel segno di un nomadismo stimolante cui sembrava destinata dalla nascita. Annie era poliglotta, scriveva sia in inglese che in italiano, era nata in Inghilterra da una madre tedesca, Anna Lindau, di importante casata germanica, scrittrice e sorella di scrittori, e da un padre italiano, Anselmo, patriota mantovano di famiglia ebraica in fuga dall’Italia dove era stato condannato a morte ed era considerato «uno dei più caldi e aderenti amici di Mazzini». I due si erano conosciuti in Svizzera ed erano poi andati a vivere a Threadneedle Street, in un sobborgo di Londra, dove erano nati i figli ( Anselmo ne aveva altri da una precedente relazione). C’è un racconto in cui Annie rievoca la sua infanzia: «Eravamo un gruppo di bambini nel giardino di Park House a Norwood; e ciascuno diceva ciò che avrebbe desiderato essere quando sarebbe diventato grande». Chi vuol fare il pittore, chi il cavallerizzo, chi il palombaro, chi il capo tribù, e poi tocca a lei: «E tu, Annie, cosa vuoi essere? Felice, diss’io». Intanto, per un certo periodo il padre, che continuava da esule l’attività politica, si occupava anche dell’industria tessile di famiglia, ma quando questa fallì, complice anche un’amnistia, decise di tornare in Italia portando tutti con sé.
Annie Vivanti è una scrittrice inconsueta che appartiene al mondo, pur essendo legata a singoli luoghi. La sua casa è l’Europa, il verbo che meglio racconta i suoi transiti è” soggiornare” piuttosto che risiedere o abitare. Forse per questo è difficile trovarle un posto nel nostro canone, perché tutto in lei è fuori norma, a partire dai diversi generi letterari che esplorò con grande seguito e risonanza. Le lettrici e i lettori l’amavano, anche se cambiava voce di libro in libro restava sempre riconoscibile: nei romanzi denunciava stupri di guerra e indagava su casi di cronaca controversi, e intanto produceva reportage e libri per bambini.
Ancora diverso è il timbro di certi racconti: quelli di Gioia!, ripubblicati oggi dall’editore Fve, rivelano una Dorothy Parker ante litteram, fulminanti ritratti di donne annoiate e distratte, intelligenti e sveglie, spesso viaggiatrici, a volte vittime di innamoramenti veloci, sempre portatrici di una salvifica autoironia. La libertà con cui Annie Vivanti viveva le sue giornate si riflette in uno stile fatto di intuizioni, ribaltamenti e frecciate: Annie fa letteratura e metaletteratura, scompiglia i numeri dei capitoli, gioca con il grottesco delle relazioni ( Gioia è il nome di una statua, quel poco che resta di un amore finito tra un pittore e una donna dai sentimenti instabili), traveste mimeticamente la sua narrativa da teatro – il teatro era il suo antico amore, doveva essere molto orgogliosa della figlia Vivien, musicista piena di talento. C’è un ritratto di loro due insieme in cui Vivien, che in quel momento è l’enfant prodige della scena europea, abbraccia il suo violino, mentre la mamma le sta dietro, guardando l’obiettivo con una divertita aria di sfida. La bambina e l’adulta sono vestite di abiti chiari, pieni di merletti e svolazzi, sono in quel momento complici e unite. Vivien si toglierà la vita nel 1941 e l’anno dopo anche Annie, provata dalla perdita, da una salute instabile e dalla svolta anglofoba del regime fascista, con cui pure simpatizzava, chiuderà per sempre quegli indimenticabili occhi” glauchi ed azzurri."