Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  agosto 18 Mercoledì calendario

Biografia di Rosetta Loy

Dovevo fare un mucchio di roba quel giorno in cui ci saremmo incontrati con Rosetta Loy in Trinità dei Monti per parlare di un progetto. Intanto ero lì dal giorno prima perché ci dovevamo vedere per un caffè al mattino presto e via andare. Avevo deciso di girare sempre in taxi perché le ultime due volte mi avevano fregato tutto sul 19 e non mi andava proprio di farmi mettere le mani in tasca da sconosciuti. La Loy nella mia testa è sempre esistita, perché appartiene a quella generazione che ha conosciuto tutti i grandi: Calvino, Vittorini, Moravia, la Ginzburg, Pasolini che, a ben vedere, sembrano sempre i soliti, ma dannazione lei ha potuto frequentarli e scambiare con loro idee sul serio, mica solo sui libri. Così in quelle ore di fretta ci siamo visti con Gianluca Barbera, che prima di diventare uno scrittore di libri per Solferino, gestiva due o tre marchi editoriali per Rusconi e per sé. Avevamo in testa l’idea di andare a prendere autori a nostro avviso molto bravi e pubblicare una sorta di lista di quelli che ci piacevano di più. Volevamo chiamare la collana letteraria 150, perché in quegli anni ricorreva l’anniversario dell’unificazione d’Italia. Idealmente volevamo fare una grande collana con gli italiani e a me era venuta in mente Rosetta Loy anche perché quando lavoravo in libreria a Ferrara il suo romanzo Ahi, Paloma, con quella copertina argentata, mi si era piantato in testa. Me lo ritrovavo dappertutto: scaffali, tavoli, mensole, e la Loy era diventata un mantra quando rimettevo a posto i libri. Soprattutto avevo letto La bicicletta, questo delicato quanto drammatico romanzo in cui un gruppo di persone dell’alta borghesia viene raccontato nel periodo capitale della II Guerra Mondiale e del Dopoguerra. Mi interessava vedere come aveva raccontato lei lo scorrere del tempo tra adolescenza, drammi, età adulta. Nel periodo in cui lessi La bicicletta andai a recuperare anche La vacanza della Maraini perché ero intrippato coi libri d’esordio al femminile. Nella mia testa c’era l’idea che le opere prime, seppure, a volte, ancora ingenue, nascondessero tutta la forza e l’energia, magari disordinata, ma necessarie per le scrittrici. E siccome c’era lo stereotipo che gli uomini non leggono le scrittrici, io negli anni ’90 ho letto moltissime opere prime di scrittrici. 
Vidi arrivare da lontano la Loy. Sembrava una betulla. Secca, longilinea. Aveva capelli bianchi a caschetto, un paio di pantaloni modello capri, ballerine basse e giacca. Ci salutammo velocemente, senza troppi convenevoli e aspettammo Barbera. Quel misto di eleganza e informalità un po’ mi inquietava, un po’ mi metteva soggezione per interposta persona: lei aveva avuto un’importante storia d’amore e intellettuale con Cesare Garboli e io di Garboli avevo paura per diverse ragioni. Da ragazzo, al mare di Versilia, li avevo visti parecchie volte al Gran Caffè Margherita di Viareggio. Lui imponente, col bastone e un Borsalino. Lei in giro a piedi per il lungomare. Quando passava lei Viareggio diventava di colpo Saint-Tropez. Mai che avessi rivolto la parola a nessuno dei due. Ero un ragazzo, non sapevo che dire a Garboli. Cosa avrei potuto dirgli? Gli avrei chiesto del suo amico Antonio Delfini, che da Disvetro di Cavezzo partiva e andava a fare vacanza a Viareggio nella casa di famiglia? Oppure gli avrei chiesto di Rolando Viani e del suo libro Einaudi A Viareggio aspettiamo l’estate? Ma che gli importava di un ragazzetto appassionato di letteratura? Così ora eravamo lì a Trinità dei Monti e Rosetta Loy aveva sottobraccio Il Manifesto e ci scambiammo qualche parola sul suo romanzo storico intitolato Le strade di polvere che avevo letto da poco e sul quale pesava la netta seconda di copertina precisa e spiazzante di Garboli. Arrivò anche Barbera. «Venite. Vi porto io in un caffè» ci disse la Loy. Così prendemmo per via Condotti. Entrammo in un caffè pieno di marmi preziosi e interni coi tavolini Liberty. Sapevo che la Loy era stata suocera di un altro scrittore che mi interessava molto: Edoardo Albinati, ma per evitare gaffes non lo nominai di striscio. Però Albinati una volta mi disse che quando andò in missione in Afghanistan doveva abbracciare alberi quando sminavano i territori per bonificarli. Lo spostamento d’aria contorceva le budella e l’unica salvezza, per evitare lo sbudellamento, era abbracciare alberi. Mi era venuto in mente questo, seduti al tavolino al caffè pieno di marmi preziosi e stucchi, perché la Loy non mi sembrava proprio una di quelle autrici che abbracciano gli alberi per ritrovare energia cosmica e allinearsi con l’universo o una di quelle scrittrici che con le dita dei pollici e gli indici fanno i cuoricini con le mani. No, non era proprio il tipo, e anche questo mi piaceva di lei: la poetica dell’asciuttezza. 
Adesso ho letto da poco il suo libro Cesare dove racconta l’uomo e il critico Cesare Garboli. È una sorta di memoir in cui Rosetta Loy parla di sé, di Garboli, dei loro viaggi, dei loro caratteri e delle opere e curatele del critico e studioso. Nessuna nostalgia, scrittura controllata, non fa trapelare nessuna emozione anche se ovviamente si sente tutto l’affetto, l’amore e l’ammirazione per l’uomo che è stato. Loy racconta un mondo culturale oramai finito nel quale si poteva incontrare a Parigi il semiologo Barthes senza scambiarlo per Bart dei Simpson, oppure si poteva impiegare anni per raccogliere gli studi di Roberto Longhi, Sandro Penna, curare le opere di Pascoli ed essere cosmopoliti. Ecco, questo bel libro della Loy rappresenta un cosmopolitismo italiano del Dopoguerra in cui grazie ai libri potevi svoltare e creare un contro-novecento coi tuoi scritti. Il libro intitolato Cesare è appassionante, colto, ricco di notizie e vicende. Emerge un Garboli burbero e vivace, grande intuitivo, ma compare anche il carattere indipendente e l’understatement dell’autrice.
Eravamo lì, cappuccino e brioches, caffè e bottiglia d’acqua, a parlare di letteratura, scrittura, progetti. Ma mi accorgevo che non ingranava, perché giustamente non avevamo confidenza, ci eravamo sentiti solo al telefono e non avevamo mai avuto la possibilità di vederci per presentazioni, inviti a festival. In definitiva la Loy è una scrittrice appartata, se ne sta per i fatti suoi con cordialità, ma non è certo quel tipo di donna che cerca di ingraziarsi qualcuno. Mi piaceva, ma tra noi non ingranava e anche Barbera che cercava di tirare fuori argomenti da me sostenuti, mi guardava come per dire: «Questa è tosta!». Così ci parlava di una sua idea che era uscita a partire da fiabe tedesche che le leggevano da bambina mentre era seduta su una seggiolina azzurra. Qualcosa di molto lontano dai suoi libri in parte autobiografici ma in cui la famiglia, il locus, hanno sempre una grande rilevanza. A noi un libro così sarebbe andato bene per la collana, ma non dicemmo nulla, non forzammo il naturale svolgersi di un discorso. Il libro di cui parlava era Cuori infranti di Nottetempo. 
Vabbè, alla fine ci salutammo. Lei tornò verso Trinità dei Monti, noi proseguimmo verso Piazza del Popolo. Lì ebbi un’apparizione: Pietrangelo Buttafuoco camminava per la piazza discutendo con un venditore di accendini. L’ultima volta l’avevo visto passeggiare per Torino con la regale Afef e mi venne un brivido lì a Piazza del Popolo.