La Stampa, 18 agosto 2021
I segreti dello chef catalano Joseba Cruz
41°55’32.5"N1°53’15.6"E. Al momento sono queste le coordinate per trovarlo. Catalogna profonda. Vicino scorre il Llobregat, a qualche minuto c’è il paesino di Navàs, intorno boschi. E lì, se il Gps è preciso, c’è un maneggio dismesso che ora è un ristorante effimero. Questo fine settimana accoglierà i clienti sotto la tettoia in legno, ma a settembre si sposterà per una manciata di giorni sui Pirenei, a oltre 2.000 metri. E poi chissà dove ancora, o probabilmente tornerà a valle, alla base. Perché Le Clandestin è un progetto itinerante e il suo ideatore, Joseba Cruz, si definisce uno chef nomade.«Non ho bisogno di una cucina per cucinare né di una sala per far accomodare le persone» sorride all’inizio di questa videointervista. Poi gira il telefono e inquadra gli ambienti di lavoro: qualche tavolo sotto la tettoia, un furgone Anni 60 con forno e piastre, un cortile con galline e capre, il bosco. «È tutto ciò che mi serve per creare un menu degustazione sempre diverso, da 9-12 portate – spiega -. Per realizzarlo combino tecniche contemporanee e ancestrali. Voglio tornare alle origini, esplorare l’estremo». Alta cucina in un’atmosfera alternativa, rilassata. Con un obiettivo: «Ottenere la stella verde Michelin (quella che premia la sostenibilità, ndr.) o meglio, essere la prima stella verde Michelin itinerante».Nell’attesa, Joseba Cruz, 34 anni, originario del paesino di Balsareny, la stella se l’è tatuata sul braccio destro. E un omino Michelin blu, di gomma, fa capolino sul suo furgone Ebro e alle cene che organizza nel maneggio che si trova nella zona del Bages o nei boschi in cui si installa temporaneamente portando tavoli, sedie, piatti e una base alimentare. «Ho iniziato a lavorare a 15 anni – racconta – facendo esperienza in cucine di livello, anche al Can Fabes di Santi Santamaria (il primo ristorante catalano a ottenere tre stelle, che nel 2013 ha chiuso, ndr.). Ho imparato la tecnica ma a un certo punto non sopportavo più quella pressione e ho deciso di mollare. O meglio, di provare a fare lo stesso ma a modo mio. Che poi forse implica ancora più stress visto che in cucina faccio tutto da solo (in “sala” e ai vini invece lavora la collega Estela Barroso, ndr.)».Cosa significa a modo suo? «Significa poter fare alta cucina ovunque – racconta -. Significa trovare un posto speciale (il più particolare è stato una chiesa sconsacrata vicino a Girona, con l’acquasantiera riempita di consommé) e raggiungerlo con il furgone. Significa girare nel bosco per lasciarsi ispirare: guardare, annusare, toccare, assaggiare erbe e radici. Significa realizzare un menu degustazione con quei prodotti selvatici, con ciò che possono fornire gli allevatori locali e con alcuni ingredienti che mi porto dietro». Le tecniche usate sono le più diverse. «Nei miei piatti ci sono le spume contemporanee e la cottura sottovuoto ma anche preparazioni antiche: faccio seccare al sole i pomodori o le erbe degli infusi. Cucino con le braci nel terreno, nel fango. Molte di queste cose le ho imparate dai miei nonni e bisnonni, che sapevano anche cucinare la carne sulle pietre – ricorda -. Io ci sto provando da anni ma ancora niente... Forse un giorno tornerò a lavorare in un grande ristorante, ma questa per me è anche una sfida personale: se riesco a fare tutto questo da solo e in un furgone, con una vera cucina chissà!».Una storia affascinante, quella di questo chef catalano, raccontata dal regista Aleix Vilardebó che ne ha fatto un corto (Joseba Cruz) approdato in varie rassegne internazionali tra cui l’Andaras Film Festival di Fluminimaggiore in Sardegna. «Abbiamo girato sui Pirenei, lato francese, per 4 intensi giorni. Pioveva e nevicava ma eravamo così entusiasti che non abbiamo mai smesso di filmare – ricorda Vilardebó -. Joseba ha un modo teatrale di cucinare». Il risultato è un corto interessante, in cui piatti raffinati spuntano in mezzo alla natura selvaggia.«Se faccio lo chef – racconta Cruz – lo devo a mio cugino Olivier. Quando ero piccolo andavamo da lui in Francia. Pescava con la mosca e noi mangiavamo quel che portava. Mi affascinava l’idea di cucinare da solo con quello che si trova in natura». E questo è il suo obiettivo, sia quando è in viaggio (5-6 volte all’anno) sia quando è alla base. Le cene o i pranzi – nel fine settimana e per un massimo di 20 persone (60 euro a testa) – si prenotano per telefono o via social. I posti si raggiungono seguendo le coordinate Gps inviate. «Il mio ristorante preferito è Akelarre nei Paesi Baschi (il mito in cucina invece Anthony Bourdain, ndr.). L’idea di diventare nomade mi è venuta una delle volte che tornavo da lassù. Mi sono detto, “ma se inventassi un ristorante buono che si sposta?”. Non voglio una cucina di lusso o un ristorante coi quadri alle pareti. Voglio riportare l’esperienza gastronomica al centro. Il mio quadro è la natura, che riempie gli occhi e anche il piatto. E che si mangia in un bosco o in un vigneto, con i piedi piantati nella terra».