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 2021  agosto 18 Mercoledì calendario

Il tabù dei suicidi

L’ultimo ad andarsene, solo qualche giorno fa, è stato Maurice Dotta, un belga pr visionario, capace di animare la notte milanese per tre generazioni, introducendo dagli anni ’80 la creatività scenografica dei luoghi nell’adrenalina meneghina. Si è tolto la vita. Una scelta che paralizza e toglie fiato in una città di economie e velocità dove le patologie, le fragilità individuali che portano a questi gesti mai vengono affrontate dalla prevenzione sociale ma rimangono abisso buio di chi ci cade. Ancor più in questa pandemia con la gente che si ammala di paura, con le vendite di ansiolitici che crescono del 12% (dati Aifa: +73% Umbria, +68% Marche) e il suicidio si rafforza in quello che lo rende più diabolico e bastardo: oggi è forse il tabù che fa troppa paura. Quando un parente, un amico si toglie la vita, si rimane attoniti di fronte a qualcosa d’indecifrabile, si sussurra appena la notizia nello sconcerto, ci si aggrappa a qualsiasi ricordo per esaltarne vigore e positività dell’amore mancato. Non se ne parla. Non si fa prevenzione nelle scuole. Non si entra nel problema. Niente di niente.
È una scelta perdente nella nostra cultura, soprattutto quella attuale, super egoica, che affida all’individuo responsabilità un tempo di coppia o collettive. È gestito al minimo dall’informazione per evitare casi di emulazione. Non affrontato nelle discussioni familiari, amicali o con i figli, come fosse una questione scaramanticamente da tenere talmente lontana per non averne mai nulla a che fare. Ma davvero siamo così fragili da non poterne parlare? Ecco, il tabù con i neuroni che arrossiscono e la chiacchiera che sfuma a meno che non diventi chiacchiericcio, trasformando una disgrazia in un classico romanzo da voyeurismo nostrano dove chi sa il dettaglio in più cattura l’attenzione degli antistanti in una distratta conversazione a mezzobusto nell’acqua della calura di mezza estate.
La nostra impreparazione si evidenzia in modo drammatico nella spasmodica ricerca della causale del gesto, visto che nessuna di quelle che circolano può ritenersi soddisfacente a giustificare una scelta per noi ovviamente così drammatica. Ed è proprio questo l’errore, il cercare qualcosa che appunto giustifichi mentre un gesto così andrebbe solo profondamente capito. Ancora, si dovrebbe riflettere su quanto sia ignorante e assoluta proprio la nostra inadeguatezza quando ricordiamo i progetti in corso, gli obiettivi, le ambizioni di chi ha fatto questa scelta. Come se la quotidianità che appare di chi conosciamo avrebbe dovuto far emergere queste forze buie e profonde che, al contrario, allignano e si mimetizzano fuori dal campo visivo dei più.
Eppure queste storie dovrebbero farci reagire, strutturandoci per capire e soprattutto prevenire, aiutando nel dialogo prima che ci si ammali sempre di più. In Italia assistiamo in media a circa 4mila suicidi all’anno, secondo l’Istat che però offre dati aggiornati al 2017. Diversi osservatori e professionisti indicano un aumento negli ultimi due anni – con le onde pandemiche che si sono abbattute sulla nostra quotidianità, cancellando economie e posti di lavoro, ma i dati mancano. Ed è abbastanza ovvio visto, appunto, che il suicidio è un tabù.
Gli effetti sono devastanti. In otto anni di Quartogrado troppe, troppe volte si sono fatti avanti familiari disperati che escludevano che il proprio caro si fosse tolto la vita. E chiedevano aiuto con gli occhi gonfi, immaginando ipotesi alternative che non trovavano riscontri. Del resto come si può spiegare a un genitore una scelta di questo tipo di un figlio? Come gli si può far accettare l’innaturale realtà di sopravvivere a chi ha messo al mondo? Ma ci sono anche le situazioni opposte con i suicidi simulati che diventano ostaggi di strategie assassine. Come la storia della bellissima Valentina Salamone, occhi verdi da cerbiatto a illuminare un volto raccolto in lunghi capelli neri. Quando papà Nino e mamma Giuseppina arrivarono ad Adrano, nel ventre catanese a sud dell’Etna, trovarono il corpo della figlia, già in una bara bianca, con la corda ancora al collo e pronto per la sepoltura. Lì capirono che la loro tragedia – ancora nemmeno vissuta – era già scivolata in farsa. Suicidio, suicidio raccontavano e ripetevano conoscenti e falsi testimoni nei verbali, in un gioco di depistaggi e menzogne, contro la volontà di questa diciannovenne di essere felice e un giorno mamma. E così le indagini finirono archiviate, credendo alla macabra messinscena. La storia di Valentina ben sintetizza il paradosso della vittima uccisa due volte: prima dalla mano omicida, poi dalla chiacchiera che la delegittima trasformandola in insofferente, cupa, depressa, matura per l’estremo gesto. Se non fosse stata l’ostinazione di Nino e Giuseppina, di qualche cocciuto inquirente e qualche giornalista proprio di Quartogrado, l’inchiesta mai sarebbe stata riaperta. Ma i danni sono tutti alla luce del sole. Dopo 11 anni ancora il processo non è finito: si aspetta la Cassazione per capire se confermerà l’ergastolo inflitto all’ex fidanzato Nicola Mancuso. Uno strazio che si riflette sulla vita dei poveri genitori, tra ictus e infarti attendono l’ultimo verdetto. Una situazione assai simile a quella di Carlotta Benusiglio, la stilista 37enne trovata impiccata nel 2016 in piazza Napoli a Milano. È ancora giallo. Dopo anni di opinioni investigative contrastanti, la Procura ha chiesto di processare con l’accusa di omicidio il suo fidanzato, Marco Venturi, fino ad ora rimasto libero. La povera Carlotta si è tolta la vita o è tutta una messinscena di una difesa infame e codarda del suo assassino? Lo dirà la giustizia. Nell’attesa, se noi espugnassimo questo tabù, tutti si sentirebbero più protetti e meno soli.