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 2021  agosto 17 Martedì calendario

Il tramonto dell’impero americano in Medio Oriente

Hanno liberato l’Afghanistan, occupato l’Iraq, “guidato da dietro” i bombardamenti sulla Libia di Gheddafi; ritirato e poi rimandato truppe in Siria e Iraq perché del vuoto militare lasciato se ne era impossessato l’Isis; hanno lasciato cadere un alleato affidabile come Hosni Mubarak, permettendo che l’Egitto finisse nelle mani dei Fratelli musulmani e poi di un dittatore brutale come al-Sisi; hanno fatto e disfatto un accordo nucleare con l’Iran, ora difficile da recuperare.
Nel ventennio in cui gli Stati Uniti facevano tutto questo al prezzo di qualche migliaio di soldati, migliaia di miliardi di dollari e deperimento delle infrastrutture nazionali, la Cina diventava ciò che oggi conosciamo. Prima in silenzio, investendo in aeroporti e ferrovie, industria e commerci: poi in modo sempre più assertivo, moltiplicando anche le spese militari. Ma senza combattere una sola guerra. Almeno per ora.
Il repentino ritiro da Kabul è stato associato al Vietnam. È un paragone sbagliato: gli americani lasciarono Saigon due anni dopo il ritiro dal Paese, negoziato con un trattato di pace. I talebani sono arrivati a Kabul con i Marines ancora in campo. Nel 1989 nemmeno i sovietici fecero una figura simile: l’Urss era allo sbando ma il loro ritiro dall’Afghanistan fu ordinato.
La rapidità con cui l’esercito governativo si è liquefatto all’avanzare dei talebani in qualche modo dimostra la fondatezza della decisione di Joe Biden: se 350mila uomini dotati di aviazione si sono arresi dopo dieci giorni di combattimenti a 75mila studenti coranici senza nemmeno l’elmetto, non aveva senso restare in Afghanistan. Ma il ritiro con le sue immagini mediatiche è stato così “catastrofico” (definizione condivisa da tutti i grandi network internazionali), da superare pericolosamente i confini dello sfortunato Paese dell’Asia centrale.
La caduta di Kabul non ha alcun effetto diretto sugli equilibri mediorientali. Ma è in Medio Oriente, più di ogni altra regione, che gli Stati Uniti sono impegnati militarmente, politicamente e anche con un certo peso economico. Gli Usa hanno basi militari in Giordania, Bahrein, Qatar, Emirati e accordi di difesa 
con più della metà 
dei Paesi dell’area. 
E dunque molti si chiedono quanto credibili siano ancora gli Stati Uniti nel garantire il loro impegno in una regione che Biden ha ampiamente dimostrato di non avere fra le sue priorità: in campagna elettorale e, coerentemente, in questi primi mesi di mandato elettorale. Dopo la decisione di andarsene dall’Afghanistan a qualunque costo, ignorando la cautela proposta da più di un alleato Nato, qualcuno ora la chiama “coerenza senile”.
Perfino in Israele, il più privilegiato fra gli alleati della regione, il Jerusalem Post ricorda che «ovunque gli Usa siano intervenuti, in generale i Paesi sono diventati caotici, poveri, dei disastri hobbesiani». Libano, Iraq, Siria, Afghanistan, Somalia, Haiti, Panama. Se si escludono l’Europa occidentale e il Giappone dopo la Seconda guerra mondiale, e la Corea del Sud dopo il conflitto nella penisola finito nel 1953, ovunque gli americani abbiano messo “boots on the ground” non hanno saputo realizzare quei valori proclamati all’inizio delle loro missioni.
L’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi e l’Arabia Saudita del principe ereditario Mohammed bin Salman sono fondamentali per gli equilibri e la sicurezza regionali; e contemporaneamente sono due esempi di sistematica violazione dei diritti umani. Nelle dichiarazioni e nei comportamenti, l’amministrazione Biden non ha ancora trovato il necessario punto d’equilibrio perché una superpotenza eserciti 
la sua influenza. 
La questione palestinese non è una priorità regionale ma gli eventi del maggio passato hanno dimostrato che senza un’iniziativa politica il conflitto può riprendere in ogni momento. La diplomazia americana si è limitata a consigliare una cauta “gestione del conflitto”, anziché imporre quanto meno una ripresa del dialogo fra le parti.
Per un Paese democratico forse è difficile essere una potenza, esercitando le sue due necessarie componenti, in apparenza antitetiche: la compassione e l’uso della forza. Forse quest’ultimo elemento è una prerogativa inevitabile per una potenza: prima o poi una guerra toccherà anche ai cinesi. Diventando sempre più una potenza affermata ma illiberale, la Cina non avrà alcuna misericordia quando deciderà di conquistare Taiwan (delle debolezze americane in Afghanistan i taiwanesi sono certamente più preoccupati dei mediorientali). 
Come la Russia di Putin intervenuta in Georgia, Ucraina, Siria, Libia, senza dover sondare i propri pochi alleati né curarsi del giudizio della sua inesistente opinione pubblica.