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 2021  agosto 17 Martedì calendario

Il business sbagliato dei fari

Sembrava una bella idea: mettiamo in vendita i fari del demanio italiano, che per decenni sono stati punto di riferimento ai naviganti, così qualcuno li valorizzerà e non andranno in malora, visto che lo Stato non ha i denari sufficienti per manutenerli.
Dunque i nostri fari dal passato marinaro glorioso sono andati all’asta, in concessioni trentennali, per farne alberghi di lusso e resort esclusivi. Qualche problema c’è stato, visto che non è che si potevano toccare le costruzioni: finestre piccolissime, murature imponenti e nessun intervento strutturale consentito. Ma il vero nodo sta arrivando al pettine ora e dipende dal fatto che i fari sono spesso ubicati nei luoghi più belli e spesso protetti delle coste italiane, molte volte all’interno di parchi o riserve, dove, per fortuna, non si può e non si deve toccare nulla. In quelle aree nessuna mulattiera può diventare una strada e se vuoi restaurare e ristrutturare devi usare l’elicottero, facendo sorgere innumerevoli conflitti.
Procediamo con ordine e prendiamo come paradigma i fari dell’isola del Giglio, uno dei quali molto famoso (faro delle Vaccarecce, peraltro non interessato in questa problematica, ma fortemente simbolico) anche per un libro di Federico Moccia molto popolare. L’isola del Giglio è uno scoglio di granito di rara bellezza che emerge da un mare verde smeraldo straordinario: un tempo qui si affacciava la foca monaca, il bue marino, come lo chiamavano per via della somiglianza con un vitello. Di notte si arrampicava sulle lastre di granito per raggiungere i filari di vite e rotolarsi sotto la luna. In mare la scambiavano per uomini o sirene. Ma la bellezza del Giglio è soprattutto nei percorsi montani che portano a Giglio Castello, uno dei borghi più belli d’Italia, e alle falesie, cioè ai fari.
Il faro di Punta Fenaio è stato restaurato con presumibile grande spesa che, però, non sembra essere valsa l’impresa: il resort di lusso naufraga nelle more di economie sempre più depresse e non è difficile immaginare che le poche camere non permettano guadagni significativi e nemmeno di rientrare nelle spese. È un caso generale: spesso i fari non sono vicini alle spiagge, ma in alto, a picco sulle onde e dunque è difficile fare il bagno, e sono pochi coloro che desiderano passare settimane sul mare senza potersi, di fatto, immergere. Così i concessionari si indebitano e lo stato ottiene sì il risultato di un bene restaurato, ma anche quello di un cavallo di Troia.
Come accade per i troppi hotel che sono disseminati lungo le nostre coste: quando le cose non vanno si trasformano in appartamenti, dove appartamenti non ci potevano essere, ingannando la legge che vieta nuove costruzioni private. Inoltre gli amministratori sono «costretti» dai concessionari a violare le leggi per consentire gli accessi stradali nelle aree protette. Come è il caso dell’altro faro del Giglio, quello di Capelrosso, i cui concessionari vorrebbero strade al posto delle mulattiere. Ma nei parchi, come si diceva, questo non è possibile e l’interesse privato si scontra con il godimento pubblico, che deve essere mantenuto, e con la tutela dell’ambiente nelle aree protette, che non può essere certo trascurata per il guadagno, seppure legittimo, di pochi.
Il fatto è che queste concessioni non sono sostenibili dal punto di vista ambientale, prima ancora che da quello commerciale. Il ripristino di strutture come quelle presenti al Giglio, nell’antistante Giannutri e su gran parte delle coste italiane, oltre agli oneri concessori (non indifferenti) da pagare ogni anno, oltre al fatto che il privato che investe si trova alla fine in mano un bel nulla, non permette il rientro economico rispetto alle cifre investite: in pratica è come investire sulla fontana di Trevi illudendosi di possederla (come l’italo-americano Deciocavallo in «Totòtruffa») Non ci sono e non ci possono essere strade, non ci sono i servizi (fognature, condotte idrauliche) e le stanze da mettere a disposizione sono pochissime, tali da non permettere alcun recupero da parte del privato. Inoltre, dove si alloggia il personale di servizio? Non è che si possono costruire alloggi ex novo e nei luoghi turistici trovare da dormire a buon mercato è particolarmente difficile, specialmente se devi essere nei pressi.
Come si può pensare poi di realizzare strutture ricettive in un faro come quello di Capelrosso a Giannutri, in piena zona 1 del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano, dove si incoraggia il ritorno del falco pescatore o della foca monaca non si riesce a comprendere. Se però le strutture ricettive vengono comunque attivate, si trasformano in oggetto di contenzioso nelle zone più nevralgiche delle aree protette, portando a una inevitabile contrapposizione fra difensori istituzionali dell’ambiente (accusati di non volere lo sviluppo e la valorizzazione) e i portatori di interessi privati, visti come predatori di futuro incapaci di distinguere i valori dai prezzi.
Quando si è pensato di alienare, seppure in concessione, beni che si faticava a mantenere integri, non si è tenuto conto della necessità di guadagno cospicuo di chi investe in un bene che non potrà mai possedere.
Non era una buona idea. E si scontra con gli interessi speculativi lungo le coste di un paese in cui solo il 29% resta selvaggio e intatto, essendo tutto il resto variamente intaccato. Capire che il mare d’Italia non debba diventare una proprietà o una concessione privata sembra difficile, consentendo fughe in avanti laddove si dovrebbe fare un passo indietro.