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 2021  agosto 17 Martedì calendario

Tadzio e Visconti, la maledizione della bellezza

Un vecchio, un vecchio inquietante, un guru, un barbone, molto alto, molto magro, con i gesti lenti, la pazienza di chi è altrove: ha 66 anni, l’età in cui i suoi coetanei fanno ancora i rubacuori: ma se lega in una treccia la massa dei capelli bianchi lunghi oltre le spalle che gli nascondono il viso, se lo si immagina senza la maschera della barba e dei baffoni pure bianchi, sotto quelle rughe, si scorgono lineamenti delicati e perfetti, la luce degli occhi grigi. È un vecchio in realtà bellissimo, ciò che resta e resiste oggi di chi a 15 anni era stato marchiato, e perduto, da una maledizione, quella di essere diventato “il più bel ragazzo del mondo”: l’indimenticabile per sempre Tadzio, il fanciullo che sulla sabbia malata del Lido di Venezia dell’inizio Novecento, ossessiona il vecchio morente scrittore Gustav von Aschenbach del romanzo di Thomas Mann, Morte a Venezia che nel sontuoso, ambiguo, incantevole film di Luchino Visconti del 1971, è un musicista con il volto stanco di Dirk Bogarde che si incanta per quell’adolescente vestito da marinaretto.
Due registi svedesi, Kristina Lindström e Kristian Petri, in omaggio ai 50 anni del film, in 5 anni hanno realizzato un documentario su una vita di meraviglia e di dolore, di sogni irrealizzati e di tragedie inevitabili, la vita di Björn Andrésen, il più bel ragazzo del mondo oggi questo signore dentro uno svolazzante cappotto nero lungo sino a terra che nel suo minicucinino a Stoccolma si muove regalmente tra sporcizia e ruggine, scarafaggi e immondizie. Quando Luchino Visconti va in Svezia per trovare il suo Tadzio, vede decine di ragazzini biondi e belli, poi come una rivelazione, nella saletta dove l’osannato regista svillaneggia con nobile eleganza il suo seguito atterrito, si affaccia un alto e sottile fanciullo di tale serena grazia androgina, con i ricciuti capelli chiari, i lineamenti perfetti e quegli occhi grigi raccontati da Mann, che Visconti ne resta folgorato. Il ragazzino è timido, e quando il Maestro gli impone di togliersi la maglietta, di mostrare quel torace ossuto da bambino, ha un momento di incertezza, di stupore, ma quel gelido vecchio insiste, e il suo destino è segnato. Da quel momento il ragazzo Björn scompare, conta solo la sua straordinaria immagine: a nessuno interessa chi sia, cosa pensi, se abbia dei sogni suoi, come quello di diventare un musicista, nessuno vuole sapere che quel cherubino già porta un suo carico di infelicità che il documentario rivela: foto e video di un biondo bambino di pochi anni, felice tra le braccia di una mamma giovane e ridente, o mentre gioca con l’amata sorellina che ha la sua stessa età, lui è nato in gennaio, lei in dicembre del 1955. Una mattina come tante la mamma li accompagna a scuola, ed è l’ultima volta che la vedono. Ne troveranno mesi dopo il cadavere orribilmente straziato, causa della morte: suicidio. Il padre è sconosciuto, la nonna a cui viene affidato ha già misurato il valore commerciale del nipotino e lo iscrive ad ogni audizione: quando incontra Visconti, ha già fatto un film in Svezia, docilmente, senza ambizioni, con il regista Roy Andersson, che nel 2014 alla Mostra di Venezia otterrà il Leone d’Oro.
Sulla spiaggia del mitico Grand Hotel des Bains (purtroppo ora cancellato dalla speculazione edilizia) lo sorveglia una governante, la nonna che se la gode, ma lui non deve prendere il sole, giocare al pallone, fare il bagno, per non sciuparsi. Dirk Bogarde lo ignora, Visconti ha raccomandato alla troupe quasi tutta omosessuale di non toccarlo, poi lui la sera lo porta nei bar gay: ricorda il Tadzio anziano, “Per lui ero carne da macello”. Anteprima a Londra alla presenza della Regina, presentazione al festival di Cannes, quel silenzioso, timido, meraviglioso ragazzo ha un successo clamoroso, per lui terrorizzante, e Visconti lo ferisce pubblicamente, “ormai ha 16 anni, sta già perdendo la bellezza”. E lo abbandona al suo destino, alla sua irrevocabile solitudine e forse perdizione, star da stadio a Tokyo, usato dalla pubblicità, trasformato nella celebre Lady Oscar dei manga, poi icona gay a Parigi in ungiro di sfruttamento. Ci sono foto di lui trentenne tornato a Stoccolma, i capelli ricciuti e scuri a riccioli corti, la bellezza smagrita, indurita: abbracciato a un graziosissima ragazza bruna nuda con il velo da sposa, sua moglie, poi seduto a torso nudo su letto, tra le braccia un fantolino, il suo secondo figlioletto: sarà il momento di una tragedia definitiva, di quelle da cui non ti salvi più.
Björn senza clamore continua a lavorare, lo si vede in un film travestito da santone, che in cima a un dirupo circondato dal ghiaccio forse sta per buttarsi, è considerato un buon musicista e lo si vede nell’antro della casa mentre ascolta una sua registrazione al piano. La figlia adulta lo va a trovare, l’ex moglie lo maltratta al telefono, la pace è nella solitudine che allontana gli incubi. Grande documento importante per molte ragioni, anche quella di raccontare non l’eterno orribile sfruttamento del corpo delle donne ma quello di un maschio, vittima di una stessa rete di disprezzo, cupidigia e potere. Morte a Venezia fu accolto con poco entusiasmo dalla critica, che lo trovò ridondante rispetto anche al capolavoro di Mann: non ricordo allora, ma oggi sui dizionari di cinema non si accenna al contenuto omosessuale che è anche nel romanzo, non solo nel film. Non era un mistero allora che Luchino fosse gay, né che vivesse con quel bellissimo giovane, Helmut Berger, un Tazdio cattivo, ma allora non importava a nessuno, forse eravamo più liberi, più intelligenti, meno disperati. Una mostra a Washington con sei grandi capolavori di Tiziano sta sollevando brontolii e addirittura un “allarme rosso” soprattutto il Ratto d’Europa a causa della stessa molestata, e non va bene. Per fortuna il documentario svedese non ha svegliato alcun Torquemada; e speriamo che col tempo nessuno ne pretenda il rogo assieme a tutti i film di Visconti e alla memoria del regista stesso, il nostro Kevin Spacey di più inestimabile valore.