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Francesca Mannocchi, la Repubblica KABUL – Una massa indistinta che si muove caotica intorno all’aeroporto, le auto bloccano le strade, non ci sono più i soldati dell’esercito nazionale. I talebani sono in città, è saltata la linea di comando. Ognuno, come può, tenta di mettersi in salvo. I ministeri si svuotano, così come gli uffici di polizia. I cittadini di Kabul che fino a poche ora prima, con i talebani a Wardak, ultima porta della capitale, ascoltavano con apprensione le notizie per capire quando si sarebbero avvicinati, si sono svegliati con i talebani davanti alla porta di casa. Pronti a dichiarare vittoria. È in quel momento che la libertà di andare via, a Kabul, ha preso due forme. La prima quella delle evacuazioni delle sedi diplomatiche, dei ponti aerei e dei mezzi militari pronti all’aeroporto Hamid Karzai per portare via i diplomatici, staff consolare e civili stranieri, e la seconda quella degli afghani, intrappolati, all’assalto dell’unica via d’uscita rimasta nel paese. Migliaia di uomini e donne, bambini aggrappati ai cancelli, gridavano disperati, una reazione collettiva, incontrollata, mentre i talebani si stavano insediando a Kabul quasi senza incontrare resistenza. La paura degli afghani era diventata rabbia. Assalti ai convogli blindati, lanci di pietre, e urla: «Vergognatevi ». E urla più forti: «Dovete portarci via». È in questo clima che l’ambasciata italiana è stata evacuata, il 15 agosto. Troppo pericoloso per il convoglio blindato il tragitto via terra, si decide per il ponte aereo dalla sede diplomatica all’aeroporto. Dalle ricetrasmittenti una voce dice: «Si sta mettendo male». Si stava mettendo male su tutti i fronti. I talebani erano ormai nelle strade, gli afghani sapevano che l’aeroporto era rimasta l’unica via d’uscita dal paese. Tutti avevano capito che quella che si stava consumando non fosse un’entrata pacifica e senza spargimento di sangue come dichiarato dal portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, un’entrata verso la formazione di un governo di transizione. Kabul assisteva a una resa. I talebani non hanno dovuto conquistare la città, come a Kandahar, Kunduz, Lashkharga. Kabul gli è stata consegnata. Dall’inefficienza del governo di Ashraf Ghani, che avrebbe potuto trattare tre mesi fa, quando era già evidente che i talebani stavano avanzando senza sosta, Ghani il presidente da cui pochi, in Afghanistan si sentono rappresentati, che poteva mediare e non l’ha fatto. Kabul è stata consegnata dalle forze armate, prive di indirizzo, leadership, corrotte e demotivate mentre i ministeri e gli uffici di polizia si svuotavano in fretta. Dai soldati che scappavano, in fuga con aerei ed elicotteri verso l’Uzbekistan, prima di essere cacciati. O peggio uccisi. Kabul è stata consegnata ai talebani mentre i cittadini afgani gridavano: «Ci avete tradito», nascondendosi dai rastrellameti casa per casa. Una cosa però ieri è stata rispettata: gli accordi di Doha, in cui i talebani hanno ottenuto il ritiro delle truppe impegnandosi a garantire la loro uscita in sicurezza dal paese. E così è stato, i diplomatici e i civili occidentali s ono stati evacuati, è stato garantito loro un passaggio sicuro verso la parte militare dell’aeroporto Karzai, con seimila soldati americani a difenderla. Oggi arriveranno anche i solati francesi, con due aerei per garantire il rimpatrio di chi ha lavorato con loro. «Abbiamo combattuto per una giusta causa, non abbandoneremo nessuno», dice Macron. A Doha i talebani si erano detti pronti a un dialogo diplomatico con i politici afgani. Impegno di cui non hanno avuto bisogno. Quando gli americani, con l’amministrazione Biden, hanno confermato il ritiro e l’hanno confermato senza condizioni del dialogo intra afgano non c’era piu’ bisogno. È stata proprio l’assenza di condizioni a rafforzare i talebani, e dare loro lo slancio per vincere la partita militare. Kabul è stato il capitolo finale, non conquistata ma consegnata ai talebani, nel giorno della grande evacuazione dei diplomatici e del presidente Asfrah Ghani scappato via. Anche a lui e ai suoi collaboratori è stato garantito un passaggio sicuro verso l’aeroporto, un’evacuazione, una fuga. Salito sulla scala del veicolo senza dire una parola al paese, senza congedarsi, né scusarsi con i cittadini che solo pochi giorni prima aveva invitato a resistere. Le sirene hanno lanciato l’allarme sicurezza all’interno dell’aeroporto per tre volte. I soldati hanno imbracciato le armi, i civili da evacuare restavano chiusi all’interno, accucciati a terra mentre la città, fuori, si infuocava di rabbia. Più persone a premere sui cancelli per entrare, più gli spari a rompere l’aria. Ma è troppa la paura, e migliaia di afghani scavalcano le transenne di sicurezza, occupano gli aerei. Kabul è divisa in due: gli aerei militari pronti per le ultime evacuazioni della notte pronti sulla pista, gli aerei civili fermi. Si ripete l’appello per le liste dei voli militari. Gli italiani ci sono tutti. Mancano gli afghani che non riescono ad arrivare, non riescono ad attraversare i cancelli. Troppa la folla, troppe le urla, il pericolo, i colpi sparati in aria dalle truppe americane a difesa dello scalo, per disperdere la ressa. «Bisogna andare a prenderli», «Non partiamo senza di loro». Frasi carpite, strappate all’impegno dell’ambasciata per portare in Italia i collaboratori afghani con le loro famiglie. Per tutti visto pronto da tempo, e ormai svanita la speranza di non avere bisogno di usarlo per scappare. I funzionari diplomatici si spendono fino a notte fonda, anche oltre le norme di sicurezza per andare a prendere i cittadini afgani nella parte civile dell’aeroporto. Il convoglio si muove tre volte, per due sotto il tiro dei proiettili. E torna, tre volte, con le famiglie afghane. I collaboratori, due ragazzi, tre bambini. Frasi strappate agli abbracci che si consumano nella notte: «Per uno che riusciamo a portarne via troppi resteranno qui». Ieri i cittadini di Kabul, e quelli arrivati da lontano, hanno provato di nuovo a occupare la pista, correndo dietro gli aerei, e aggrappandosi mentre decollavano, corpi caduti nel vuoto come l’undici settembre. È la storia che si ripete nella sua forma piu’ tragica. Andrà avanti così tutto il giorno. Gli ospedali ricevono i corpi dei cittadini uccisi dai colpi che hanno provato a impedire la loro fuga. Gli afghani sanno che si scappa solo da lì, dall’aeroporto Karzai, e che partito l’ultimo diplomatico il rischio è che nessuno più entri ed esca dal paese. Sono da poco passate le tre del pomeriggio, è appena atterrato al terminal 5 dell’aeroporto di Roma Fiumicino il volo militare che ha riportato a casa l’ambasciatore italiano a Kabul Vittorio Sandelli, parte della delegazione diplomatica, i civili della cooperazione internazionale e delle organizzazioni umanitarie e sedici afghani con le loro famiglie: collaboratori contrattisti della sede diplomatica italiana a Kabul. «Avremmo voluto fare molto di più». Sono le parole dei diplomatici arrivati a Roma, che tengono insieme la forza e la stanchezza degli ultimi giorni. La concitazione dell’evacuazione, lo sforzo per salvare più persone possibile il più in fretta possibile, la frustrazione di non averlo potuto fare.
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Giordano Stabile, La Stampa I taleban hanno preso Kabul senza sparare un colpo, o quasi, ma la fuga degli occidentali e dei loro collaboratori, i pochi messi in salvo per adesso, è stato quanto di più caotico si potesse immaginare. Joe Biden aveva promesso che non si sarebbero viste scene «come a Saigon». È stato peggio. Già la sera di domenica la calca all’aeroporto «Hamid Karzai» cominciava a diventare incontenibile. Ieri mattina le forze anglo-americane a presidio dello scalo hanno perso il controllo. Per far partire gli aerei da trasporto, giganteschi C-17 con dentro fino a 800 persone alla volta, elicotteri d’assalto Apache "spazzavano" la pista a bassa quota, in modo da allontanare la folla. A un certo punto i militari hanno sparato, e almeno otto persone sono rimaste uccise. Un’altra immagine mostra un soldato che urla con il fucile spianato e ha di fronte donne e bambini. La sintesi di un fallimento. Gli ultimi 500 impiegati dell’ambasciata americana hanno lasciato il Paese nella notte fra domenica e ieri. Metà lavoravano per le 17 agenzie di spionaggio statunitensi. Nessuno aveva previsto quello che sarebbe successo dopo il ritiro della Nato, completato di fatto a metà maggio, tre mesi fa. Sono bastate poche settimane di logoramento per sgretolare vent’anni di lavoro, addestramento e investimenti, 150 miliardi di dollari l’anno, tremila in tutto, buttati via. Il primo capoluogo di provincia, Zaranj, è caduto il 6 agosto, in meno di dieci giorni i jihadisti si sono presi il resto. Domenica sera la bandiera bianca arabescata con le scritte coraniche, la shahada, la professione di fede musulmana, sventolava sulla torre del palazzo presidenziale: l’Emirato islamico dell’Afghanistan era risorto, vent’anni dopo, in tempo per celebrare a suo modo l’11 settembre. Poche ore prima l’ex presidente Ashraf Ghani era fuggito. Un convoglio di una dozzina di macchine lo aveva condotta a un eliporto vicino al centro. Quattro auto, secondo la testimonianza di Nikita Ishchenko, portavoce dell’ambasciata russa, «erano piene di dollari». Gli assistenti hanno cercato di caricarli sull’elicottero, diretto poi verso l’Uzbekistan o il Tajikistan, «ma non ci stavano e una parte è finita sulla pista» mentre il mezzo decollava. Nel frattempo una delegazione degli studenti barbuti, una ventina, si presentava davanti al cancello della residenza. Era la presa del potere, come nel 1996, ma questa volta con ampio uso di mezzi di comunicazione. Foto sui social li mostravano rilassati, attorno al grande tavolo usato dal precedente governo. Poi mentre recitavano il Corano nell’ufficio di Ghani. Al-Jazeera, la tivù qatarina già megafono delle primavere arabe, veniva ammessa, un guerrigliero raccontava che era stato «otto anni a Guantanamo». Altri erano stati appena liberati dalla mega prigione nella base di Bagram, a 50 chilometri a Nord della capitale. Forse addirittura cinquemila, comprese decine di Al Qaeda. Non c’è più un governo amico dell’Occidente a Kabul. Quasi tutte le ambasciate europee e nordamericane sono chiuse, dai camini si leva ancora il fungo dei documenti bruciati, ma non quelle russa e cinese, da dove arrivano messaggi distensivi, di volontà «di collaborare» con i nuovi padroni. La figura di riferimento è Abdul Ghani Baradar, il cofondatore del gruppo assieme al defunto mullah Omar. Sessantatré anni, ha attraversato la turbolenta storia contemporanea dell’Afghanistan. Mujaheddin contro i sovietici a quindici anni, poi schifato dalla guerra civile fra i signori della guerra del 1992-1996, infine a fianco del guerrigliero orbo da un occhio nella prima presa di Kabul. Dopo l’intervento americano del 7 ottobre 2001 fugge con il capo in Pakistan. Una vita nelle retrovie finché nel 2010 Barack Obama, che vuole stroncare la guerriglia e prendere Osama bin Laden, impone ai pachistani di metterlo in carcere. Ci rimane fino al 2018, quando Donald Trump dà al via alle trattative. La prima condizione posta dalla delegazione talebana è la liberazione di Baradar. Lui guida i negoziati, e firma nel febbraio 2020 l’accordo per il ritiro delle truppe Nato. Ed è stato lui il primo volto dell’Emirato ad apparire in tivù. Rassicurante. Umile. Ha ammesso che la vittoria «era inaspettata, un dono di Dio» e che i taleban avrebbero dovuto lavorare sodo per «servire al meglio la nazione». Per prima cosa hanno stroncato l’anarchia che per alcune ore si era impadronita di Kabul. Bande armate, senza più la polizia nelle strade, taglieggiavano la popolazione, gli sfollati, le auto in fuga verso l’aeroporto, a check-point improvvisati. Sono state liquidate. I guerriglieri sono andati casa per casa a farsi consegnare le armi. Poi hanno cominciato a pattugliare le strade. Fin qui la parte «buona». Anche se i portavoce continuano a ripetere che rispetteranno «le donne e le minoranze», i segnali sono di tutt’altro tenore. I negozi hanno cominciato a ricoprire con una mano di vernice le immagini pubblicitarie con modelle senza velo e truccate. A Kandahar, a Herat, i jihadisti sono andati negli ospedali, nelle banche, uffici, hanno intimato a dottoresse e impiegate di lasciare il lavoro ai colleghi maschi e di «non tornare mai più». A casa, sotto la protezione di un «guardiano di famiglia». Altri racconti parlano di simpatizzanti che aggrediscono le donne per strada al grido di «rimettiti il burqa» o «fra un mese sposerò quattro di voi». Le radio sono state trasformate in «voci della sharia», senza più musica nel palinsesto. Giornalisti e interpreti filo-occidentali, membri delle forze speciali sono ricercati, rischiano l’esecuzione, si nascondono, chi può fugge. A Kabul, pare l’intenzione, i taleban ci andranno più cauti. Non è la città del 1996, conta quasi cinque milioni di abitanti, una classe media abituata alla libertà nei costumi, a eleggere i propri rappresentanti. Ma di governo «di transizione» non si parla più. L’Emirato ha un emiro, Haibatullah Akhundzada, leader supremo dei Taleban, e un Consiglio della Shura, con base a Quetta in Pakistan. Per adesso i capi resteranno nei loro rifugi, alcuni torneranno da Doha, dove le trattative con un ex governo non hanno più senso. Aspettano che l’evacuazione degli occidentali sia terminata e che il corpo di spedizione anglo-americano incaricato di gestirla se ne vada. I toni moderati di Baradar servono anche a evitare ogni possibile incidente con queste truppe Nato. Poi si vedrà. L’emiro Akhundzada finora ha mantenuto un profilo basso, non si è mai esposto nei negoziati e si è tenuto le mani libere. La sua ideologia è però nota, in perfetta continuità con il mullah Omar, compresa l’alleanza con il capo di Al Qaeda Ayman al-Zawahiri, che è sempre rimasto sotto la sua protezione fra Pakistan e Afghanistan. Al suo fianco c’è il figlio del mullah Omar, Mohammad Yaqoob, che a maggio ha assunto il comando militare. L’idea di un "Emirato moderato" è tanto favolistica quanto i rapporti sull’efficienza delle truppe afghane, che già gli "Afghanistan Papers" pubblicati dal «Washington Post» nel 2018 avevano smascherato, un cumulo di menzogne. I cittadini di Kabul lo sanno, e si ammassano attorno all’aeroporto. Gli ambasciatori francese e britannico sono rimasti lì, con pochi collaboratori, a firmare visti. Ma non bastano mai. Tutta l’Europa si dovrà mobilitare per assicurare la fuga e la vita a decine di migliaia di persone. Resta poco tempo.
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Marta Serafini, Corriere della Sera «Oggi è un grande giorno per il popolo afghano e i mujaheddin. Grazie a Dio, nel Paese la guerra è finita». Sono state queste le prime parole pronunciate ai microfoni di Al Jazeera da Mohammad Naeem, il portavoce dell’ufficio politico dei talebani quando domenica i mujaheddin hanno fatto il loro ingresso nell’ufficio del presidente Ashraf Ghani. Per il debutto davanti al mondo Naeem ha scelto toni rassicuranti affermando che il tipo e la forma del nuovo governo afghano saranno presto chiariti e che i talebani non vogliono vivere in isolamento ma «tenteranno di avere relazioni internazionali pacifiche». Poi, l’intera delegazione di 15 uomini ha intonato un versetto del Corano che recita all’incirca: «Quando la vittoria arriva e vedi i popoli entrare a far parte della religione di Allah allora esalta e loda il tuo Signore e chiedigli perdono. Egli infatti accetta sempre il pentimento». Una scelta che, secondo gli analisti come Hassan Hassan, lascia trasparire una volontà momentanea di dialogo. Il passato però non si dimentica. Seduto al tavolo presidenziale non a caso ha fatto la sua comparsa anche Gholam Ruhani, top leader dell’intelligence talebana, che ha raccontato lui stesso all’emittente saudita di essere stato detenuto per otto anni a Guantánamo. Un messaggio chiaro al «nemico» statunitense. Al di là dello stile di comunicazione scelto dagli insorti per la loro propaganda, grande incertezza resta sul futuro del Paese. Mentre proseguono i contatti con le forze statunitensi – il generale Kenneth McKenzie si è incontrato a Doha domenica con i rappresentanti talebani per trattare l’evacuazione dell’aeroporto di Kabul – Russia e Pechino aprono al riconoscimento di un governo degli studenti coranici e sottolineano, nelle dichiarazioni ufficiali, come la caduta del governo afghano sia arrivata a fronte di una totale assenza di resistenza da parte delle forze armate afghane addestrate dagli Stati Uniti e dai loro alleati. A rafforzare la propaganda talebana, anche le polemiche sulla fuga in Tagikistan del presidente Ashraf Ghani scappato – a detta del portavoce dell’ambasciata russa Nikita Ishchenko – «con quattro auto piene di soldi I suoi assistenti hanno cercato di infilare un’altra parte delle banconote in un elicottero, ma non ci stavano tutti. E così hanno lasciato una parte del denaro sulla pista». Anche il Consiglio di sicurezza nella giornata di ieri ha fatto appello alla ripresa delle trattative per la formazione di un nuovo governo «unitario, inclusivo e rappresentativo» che comprenda anche donne». Aperture però frenate dalle parole dell segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres che ha parlato di «notizie agghiaccianti su gravi restrizioni ai diritti umani in tutto il Paese». E ha rievocato i fantasmi del passato. «Faccio appello al Consiglio di sicurezza e alla comunità internazionale nel suo insieme – ha aggiunto – affinché lavorino e agiscano insieme utilizzando tutti gli strumenti a loro disposizione per sopprimere la minaccia terroristica globale in Afghanistan e garantire che i diritti umani siano rispettati».
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Barbara Schiavulli, la Repubblica
Non ci saranno nomi. Non ci saranno foto, solo parole perché ora in Afghanistan, è il tempo della paura. «Siamo nascoste in cantina. Siamo sole. Vi prego portateci via», è la voce in lacrime di una ragazza di 24 anni che ha studiato, lavora per un’ONG internazionale. E ormai da tre giorni se ne sta chiusa a casa con la sorella nella speranza che i talebani non le trovino. La loro colpa? Essere donne, aver studiato e lavorare.
Gli stessi talebani che sciorinano comunicati e tweet, si fanno foto di gruppo nel palazzo presidenziale, che dicono all’Occidente quello che vuole per non sentirsi troppo in colpa di aver abbandonato un popolo. Talebani che spente le telecamere, fanno quello che hanno sempre avuto in mente: tornare ad un medioevo 2.0 dove possano usare internet, farsi selfie e dettare le regole della nuova vita degli afghani e allo stesso tempo spaventare, molestare, perseguitare le donne, gli attivisti, i giorna-listi, i collaboratori delle organizzazioni straniere. Le menti pensanti devono morire, lo raccontano i 12 giornalisti, di cui cinque donne, uccisi in meno di un anno. Lo raccontano le attiviste politiche che vivono sotto scorta alcune delle quali sopravvissute a ripetuti attentati. Non è un paese per donne l’Afghanistan, eppure sono loro l’anima costruttiva, forte e corretta di un paese allo sbando.
«Bisogna organizzare corridoi umanitari, bisogna salvare donne, famiglie, lo staff che lavora con noi. Abbiamo chiesto di rimpatriare 280 persone e ancora non sappiamo niente. Per contrastare i talebani bisogna creare un’alternativa e questa è rappresentata dalle donne. Non è tenendo le donne nell’ignoranza, nella servitù totale che questo paese cambierà, bisogna salvarle per creare una nuova generazione di donne forti. Se servirà lo faremo da lontano. Spero di non vedere le stesse scene di allora, donne violentate, lapidate, i matrimoni precoci, e pensare che possano farlo allo staff con cui lavori da 20 anni, è mortale », spiega Simona Lanzoni, vicepresidente della fondazione Pangea che ammette che questi ultimi giorni sono stati devastanti. «Perché questo posto ti entra nelle viscere, queste persone ti restano dentro».
«Stanno girando per le strade, chiedono alle donne come si chiamano e che lavoro fanno. Ci uccideranno tutte. E se non lo faranno ci ributteranno sotto i burqa che è un po’ come morire lentamente», dice una giornalista afghana, 26 anni, scampata ad una visita notturna dei talebani scappando di casa.
Nove Onlus, che si occupa di progetti di emancipazione delle donne, ha distrutto pile di documenti per non far trovare i nomi delle ragazze. Dai cellulari dello staff femminile viene tolto tutto, dalle foto ai contatti. «Non dimentichiamoci anche di chi non può lasciare l’Afghanistan, bisogna continuare a restare. Oggi sono entrati al Women Garden (un’oasi verde a Kabul dove le donne si incontrano). Sono entrati nelle case delle nostre collaboratrici», afferma Arianna Briganti, vicepresidente di Nove.
Infinite le richieste di aiuto, come quella di Hamed Ahmadi, ristoratore a Venezia e rifugiato politico, disperato per la sorella attivista in attesa di salire su uno degli aerei della speranza, ma bloccata nella parte civile dell’aeroporto presidiato dai talebani. Su una cosa sono tutti d’accordo: le istituzioni italiane devono comunicare di più. Perché le donne non hanno soldi né altri modi per fuggire. Un visto per il Tagikistan costa 600 dollari, impensabile in un paese dove lo stipendio medio è di 100 al mese. I trafficanti di essere umani chiedono sui 6000 dollari. «Semplicemente – conclude Briganti - non possiamo lasciarle sole».
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Davide Frattini, Corriere della Sera I palazzotti dipinti di rosso con le torri da castello medievale, le colonnine neoclassiche a circondare le piscine, le statue dorate a far da guardia assieme ai miliziani. Queste ville pacchiane stimolano l’invidia e l’umorismo nero degli afghani che hanno storpiato il nome del quartiere di Kabul da Sherpur a Sher–Chur, significa leoni da saccheggio. Signori della guerra che hanno tirato le loro zampate quando c’era da combattere i talebani e da combattersi tra di loro, diventati rappresentanti del potere ufficiale spalleggiato dagli americani: come Mohammed Qasim Fahim, ministro della Difesa e poi vice di Hamid Karzai, il primo inquilino della residenza presidenziale abbandonata da Ashraf Ghani. Prima di morire (morte naturale, a sorpresa per gli afghani) Fahim ha spartito a prezzi stracciati i terreni di proprietà del ministero della Difesa, a Sherpur sorgeva una vecchia base militare dei tempi della seconda guerra contro i britannici. Cattivo gusto architettonico in stile narco-mafie e pessimi comportamenti. Dal suo salone rivestito in marmo blu Rashid Dostum se ne è uscito ubriaco una notte di tredici anni fa per invadere con cinquanta uomini armati la villa di un vicino che ha raccontato di essere stato torturato dal signore della guerra di origini uzbeke, anche lui passato sulla poltrona di vicepresidente. All’inizio di agosto Dostum è volato di corsa dalla Turchia — dove risiedeva da mesi per curarsi — convinto da Ghani a organizzare la resistenza contro l’avanzata dei talebani, come una ventina di anni fa con l’Alleanza del Nord, quando era passato da comandante addestrato dai sovietici a risorsa della Cia e avanguardia dell’offensiva americana, fino a essere accusato del massacro di centinaia di prigionieri ammassati e asfissiati dentro ai container. Nel nord dell’Afghanistan che lo ha sempre sostenuto, i talebani ne hanno occupato la villa fortino, si sono stravaccati e filmati sui suoi divani di raso — massima umiliazione — e per ora il Maresciallo (onorificenza a vita) sembra fuori dai giochi del Grande Gioco. Che sono movimentati — oltre dai fondamentalisti vincitori — da Karzai, Gulbuddin Hekmatyar e Abdullah Abdullah, che è stato assistente di Ahmad Shah Massud. Un triumvirato per la transizione formato da vecchi nemici. L’ex presidente rappresenta un potente clan pashtun (l’etnia maggioritaria nel Paese) e ha protetto il fratellastro Ahmad Wali fino a quando non è stato ammazzato da una guardia del corpo. Più giovane di quattro anni, era il Padrino di Kandahar, capace di farsi pagare dalla Cia e da tutti gli altri spremibili in queste province del Sud: edilizia (aveva arraffato quattromila ettari di proprietà dello Stato), traffici verso il Pakistan, licenze per i contractors da affiancare ai soldati occidentali. Già nel 2017 Hekmatyar parlava di intesa pacifica con i talebani, dopo essere tornato — grazie al perdono elargito dal governo — nella città che aveva demolito a colpi di artiglieria durante la guerra civile, lo chiamano «il macellaio di Kabul», il suo gruppo avrebbe distrutto più case e ammazzato più civili di tutti gli altri. Alleato anche di Al Qaeda, le organizzazioni per i diritti umani accusano lui e i suoi di aver eliminato intellettuali e avversari politici, di aver tirato acido alle donne per strada, di aver gestito in Pakistan prigioni per le torture. Adesso si è preso un posto al tavolo che deciderà il futuro degli afghani e delle afghane.
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Adriano Sofri, Il Foglio All’inizio ci sono gli aerei che penetrano e infrangono le Torri gemelle, e le persone che precipitano o si gettano giù, schiantandosi. Alla fine c’è l’aereo militare che decolla da Kabul con le persone che si aggrappano al carrello, e poi precipitano schiantandosi. This is the end. La rotta afghana non riguarda l’esercito e le altre forze armate che si sono arrese senza resistere, e solo in parte i loro capi, un regime spaventosamente unito dalla corruzione e diviso da odii e ambizioni spudorate. La disfatta afghana è il colpo più grave e forse irreparabile al credito, al prestigio e all’immagine della democrazia nel mondo. Si può perdere e fallire dignitosamente: questa è una bancarotta fraudolenta. Un ritiro annunciato da anni si compie nel caos e nella viltà. Le promesse solenni alle persone afghane che hanno operato per gli eserciti e le diplomazie occidentali sono ridicolmente travolte. Venti anni e miliardi innumerevoli di dollari ed euro tirano le somme nella calca dei fuggiaschi e nell’ingorgo degli elicotteri e degli aerei. I talebani sostituiscono le motorette coi veicoli militari più sofisticati dell’alleanza occidentale, come era successo agli armamenti americani appena forniti all’Iraq, e sequestrati senza colpo ferire dallo Stato islamico a Mosul nel 2014. La shariah torna, e con lei il cuore della vera fede: cancellare dalla terra le due cose più preziose, la musica e la faccia delle donne. La democrazia, agli occhi del mondo intero, è ora un modo di essere di soverchiante potenza materiale, tecnica e militare, condannato a risultare ridicolmente imbelle. Di fronte a minacce globali ed epocali, il clima, la pandemia, il mondo si chiede da tempo se la democrazia sappia essere migliore, più degna e più efficace, delle autocrazie, dei dispotismi, delle dittature. Oggi, in Afghanistan, la risposta traballa mortalmente. E’ l’ora della vergogna per noi, della esaltata derisione da parte dei nemici della democrazia. Per un’epoca intera, le democrazie che abbiamo chiamato occidente hanno vissuto, spesso vivacchiato, sulla rendita della Seconda guerra mondiale. Quell’epoca è finita, di quel patrimonio sono stati dilapidati anche gli spiccioli. Io non credo di indulgere all’antiamericanismo di maniera, ma ieri mi sono ricordato di una gran manifestazione romana per il Vietnam, durante una visita del presidente Johnson. Vidi lì un manifestante avvolto in una grande bandiera americana, che inalberava un cartello scritto a mano, che diceva: “Mi faccio schifo”. Ieri me ne sono ricordato. Quanto alla parte dell’Europa, dell’Italia, basta accendere la televisione, guardare facce e bocche dei loro notabili togliendo l’audio: è tutto.