Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2021
Umberto I, re buono, bomba o cortigiano?
La morte di Umberto I il 29 luglio 1900, alla Villa Reale di Monza, non chiuse solo un decennio fra i più tormentati della storia d’Italia (dallo scandalo della Banca Romana nel 1892, ai moti di Milano del 1898, passando per la sconfitta in Africa del 1896), ma anche una fase importante nella storia della giovane corte italiana. Quando, quarant’anni prima, era nato il nuovo regno, Umberto, allora principe di Piemonte, aveva appena diciassette anni e non aveva potuto partecipare all’epopea militare che aveva portato all’Unità. Nonostante la breve gloria raccolta nella guerra del 1866, più che i campi di battaglia, il terreno delle sue azioni furono le sale dei palazzi reali. Fu lì che, prima da solo e poi con la moglie Margherita, Umberto disegnò la monarchia italiana non meno del padre, ma in modo diverso: a Vittorio Emanuele II era toccata la fase eroica della costruzione, a Umberto spettò quella più prosaica, ma non meno ardua, della normalizzazione.
Molte pagine sono state scritte sul mito e sulla costruzione della Terza Roma. Una capitale che si voleva nazionale e non cosmopolita, come erano state, invece, quelle dei Cesari e dei Papi. In questo processo il ruolo della corte era essenziale. Solo una monarchia – molti credevano – con i suoi riti e le sue pratiche poteva creare un universo di simboli capace di tener testa al Papato. È interessante, a questo proposito, che fra le prime azioni di Umberto come re d’Italia sia stata quella di ricevere al Quirinale, il 2 marzo 1878, l’Ordine inglese della Giarrettiera, il principale ordine cavalleresco protestante. Il conferimento si svolse con una sfarzosissima cerimonia, concordata con la regina Vittoria, in una sala di quella, che sino a otto anni prima era stata la reggia del papa-re. Il messaggio non poteva esser più chiaro.
L’azione di Umberto e Margherita per forgiare una corte italiana era stata, in effetti, incessante. Aveva iniziato Umberto, risiedendo sin dal 1862 a Milano e Monza. Anche dopo le nozze, il sovrano non abbandonò mai i soggiorni lombardi. In questa scelta contò certo la sua relazione con la duchessa Litta. Ma non basta da sola a spiegarla. In realtà, Umberto volle mantenere alla nuova monarchia l’antico costume dell’itineranza curiale, aggiornandolo ai tempi nuovi. I sovrani erano, infatti, continuamente in viaggio, soprattutto a Milano e a Napoli, relegando Torino, la vecchia capitale, a un ruolo nel complesso marginale.
Mentre, però, Margherita negli ultimi decenni ha attratto l’attenzione di molti studiosi, non altrettanto ha fatto Umberto. Monumentalizzato dalla morte, egli è rimasto imprigionato in clichés tanto contrapposti - re buono o re mitraglia – quanto inadeguati per comprenderlo appieno. Alla ricostruzione della sua figura non ha giovato, poi la difficoltà a reperire documenti che potessero far sentire direttamente la sua voce. Subito dopo l’attentato di Monza, infatti, Vittorio Emanuele III s’affrettò a distruggere personalmente le sue carte private. Non stupisce, quindi, che l’analisi del regicidio, delle sue cause e delle sue conseguenze, abbia fatto la parte del leone nella ricerca dedicata al secondo re d’Italia. Sul tema sono ormai disponibili una decina di volumi, all’interno dei quali ve ne sono anche di alto livello, come Il colpo di stato della borghesia di Umberto Levra (Feltrinelli, 1975) o i saggi raccolti da Maria Malatesta in La morte del re (Bulzoni, 2001). La migliore biografia del sovrano resta, però, ancora quella che Ugoberto Alfassio Grimaldi scrisse ormai cinquant’anni fa (Il re buono, Feltrinelli, 1970). Ad essa vanno comunque affiancati, pur non ponendo il re al centro della loro ricerca, gli studi di Paolo Colombo sul potere della Corona (Il re d’Italia, Franco Angeli, 1999) e di Carlo M. Fiorentino su La corte dei Savoia (il Mulino, 2008).
Eppure, senza volergli riconoscere un acume che non ebbe, sul terreno della corte non fu un mero esecutore di decisioni altrui. Certe sue scelte furono incomprensibili per i cortigiani, arrivando a preoccupare la polizia. È il caso, per esempio, della sua frequentazione dei contadini ravennati, cui era stata affidata nel 1884 parte della bonifica dell’Agro Romano. Di tanto in tanto, accompagnato da un paio di ufficiali, egli lasciava il Quirinale recandosi a trovarli per intere giornate. Il conte Avogadro, quell’aiutante di campo che sarebbe stato con lui sulla carrozza di Monza, partecipò a una di queste visite il 9 aprile 1898. Il giudizio che consegnò al proprio diario fu tanto caustico quanto significativo. «Questi cooperativi sono... socialisti della più bell’acqua», scriveva, «che all’ombra della protezione di Sua Maestà applicano le teorie più spinte della loro setta. Essi praticano il libero amore: ogni dieci hanno una donna per le cose di casa, ma evidentemente serve da sella e da tiro... Non hanno religione, dormono alla domenica e nei pochi giorni di riposo fanno venire a tenere conferenza uno dei capi socialisti. Infatti domani, giorno di Pasqua, sarà Andrea Costa che li intratterrà dei diritti dei lavoratori». Da un ufficiale di cavalleria era difficile aspettarsi qualcosa di diverso. Ma anche a molti socialisti questi romagnoli troppo vicini al re creavano imbarazzo. Sembrava loro che fosse solo una sceneggiata, creata ad arte per evidenti scopi politici. In realtà, se anche fosse stata un’operazione di propaganda, resta rilevante che il re l’avesse accettata e posta in opera con un certo piacere. In ogni caso, un mese dopo la visita che ho ricordato, i moti di Milano segnarono il distacco più forte e drammatico fra corona e popolo che si fosse verificato dall’Unità.
Tornando alla corte, è interessante che pochi mesi dopo l’assassinio di Umberto, nell’ottobre 1900, un giornalista di sentimenti repubblicani, Giuseppe Chiesi, sulle colonne de «Il Secolo» di Milano, lamentasse il suo mancato rientro nella capitale. Essa era ancora «dispersa» nelle villeggiature, come governo e parlamento, mentre a Roma si celebrava il giubileo. Il papa riproponeva l’Urbe quale città universale, impedendo «alla capitale nostra di formarsi, di essere come dovrebbe». Una partita che Vittorio Emanuele III avrebbe scelto di giocare in modo diverso, riducendo al minimo le cerimonie di corte e lasciando il Quirinale per una villa borghese. In quanto ai contadini ravennati, che la stampa aveva definito «i socialisti di Umberto», liquidate alcune promesse del padre, Vittorio non volle più avervi nulla a che fare.