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 2021  agosto 15 Domenica calendario

Quel debito tedesco che cambiò la storia

I senso comune fa coincidere la metafora più evocativa della Grande Crisi con lo schianto di Wall Street nell’ottobre del 1929. Quello che seguì a quell’autunno ebbe però un nesso più labile di quanto si pensi col cataclisma che deflagrò negli anni successivi. In un libro accessibile e fortunato Tobias Straumann spiega la sequenza di eventi che si verificarono dopo quel crollo e riordina la cronologia politica della Depressione collocandone il termine  post quem nell’estate di novant’anni fa: l’estate in cui la “crisi del debito tedesco” divenne una generale crisi della politica democratica. 
Questo resoconto ci segnala che non fu solo il trasferimento delle tensioni finanziarie tra le due sponde dell’Atlantico a determinare la catastrofe degli anni Trenta, bensì la connessione tra fragilità economiche strutturali e velleità di potenza attuate da Paesi che avevano costruito un sistema di sicurezza collettivo nato morto. Quel tentativo aveva provato a eliminare dal palcoscenico il protagonista del dramma: la Germania sconfitta nella Prima guerra mondiale che – reincarnatasi nella Repubblica di Weimar – doveva affrontare la “Pace cartaginese” imposta da Versailles. Il valore della ricostruzione di Straumann sta nell’aver ricavato uno spazio adeguato alla specificità del caso tedesco nell’annus horribilis 1931, quando l’insolvibilità di alcune grandi banche provocò violente onde d’urto nel sistema internazionale e accelerò l’ascesa di Adolf Hitler. 
Ciò che di questa sintesi è poi apprezzabile è l’aver ricalibrato il racconto convenzionale della catena di fallimenti bancari che conobbe un crescendo con la chiusura degli sportelli della viennese Creditanstalt di Anselm von Rothschild, e l’averlo messo in connessione con il problema chiave del dopoguerra: la “questione dei debiti interalleati”. Tale fu la pervasività della polarizzazione politica tra il maggior creditore del pianeta – gli Stati Uniti – e il maggior debitore – la Germania – obbligato a rifondere colossali riparazioni ai vincitori europei che l’esigibilità del debito tedesco occupò la scena fra il 1924 e il 1933. 
Oltre a descrivere l’interdipendenza tra il capitalismo europeo e quello statunitense, la sostenibilità del debito tedesco diventò la lente per individuare le fragilità del sistema internazionale degli anni Venti, la cui effimera stabilità fu l’anticamera delle barriere erette nel decennio successivo e del ritorno a un nazionalismo competitivo brutale che si innervò di tratti estremi, violenti e revanscisti. 
È merito di Straumann argomentare quanto le opzioni del governo di Heinrich Brüning fossero limitate da una ragnatela di vincoli esterni che impedirono la soluzione più ovvia: una svalutazione simultanea dei debiti di guerra e delle riparazioni. 
Dopo la sconfitta, la rivoluzione e l’iperinflazione, Weimar era stata stabilizzata nel 1924 dal Piano Dawes e dal successivo allineamento al gold standard. Pur ristabilendo la rispettabilità finanziaria della Germania, quelle misure – che estendevano per quattro anni la protezione americana al Paese – limitarono la libertà della Reichsbank di espandere il credito. 
Con la fine del Piano Dawes, al regime delle riparazioni fu data una nuova sistemazione col Piano Young, che ridimensionava (ancora) l’entità del debito tedesco e ne ampliava i termini del pagamento. L’idea cardine di quel Piano Young era di depoliticizzare le riparazioni trattandole come qualsiasi debito, ma con la recessione l’effetto fu contrario: il crollo delle entrate fiscali e l’aumento vertiginoso dei sussidi di disoccupazione resero il servizio del debito insostenibile e le tensioni politiche interne incontrollabili. I nazionalsocialisti guidati da Hitler divennero i più radicali avversatori al Piano Young, mietendo su tale opposizione una messe di consensi impensabile fino a qualche mese prima. 
Straumann delinea precisamente il livello di consapevolezza delle élites politiche francesi e britanniche rispetto alle conseguenze politiche della crisi economica tedesca. E spiega quanto Brüning, pur di ottenere consenso alle severissime e impopolari misure d’austerità varate con l’inasprirsi della crisi, piegò il discorso pubblico tedesco verso una micidiale tenzone fra nazionalismi che individuava nella rinegoziazione del Piano l’orizzonte cui anelare. In tal modo, i primi passi della Germania lontano dalla democrazia parlamentare non furono compiuti nel 1933 con Hitler, ma da Brüning in nome dell’austerità.
Frattanto, nel giugno 1931, paralizzate da una marea di crediti inesigibili, le maggiori banche tedesche – Danat, Deutsche, Dresdner, Commerz – entrarono in uno stato di tensione crescente. Per sostenere il sistema, la Reichsbank immise liquidità nel sistema al costo di portare le riserve auree vicino all’estinzione. Entro la fine del mese, mentre il presidente americano Herbert Hoover annunciava, accolto dal gelo francese, una moratoria di un anno sui debiti intergovernativi come ultimo tentativo di placare la situazione, era chiaro che la banca centrale tedesca avrebbe dovuto interrompere o il sostegno al sistema bancario o la convertibilità aurea, cosa che accadde quando una corsa agli sportelli costrinse il Reich a imporre controlli sui cambi. Fu il caos internazionale, la fine del vulnerabile esperimento del gold standard fra le due guerre. 
La Depressione mondiale entrò nella sua fase più acuta: la Germania determinò il suo isolamento dall’economia globale, e l’ordine liberale restaurato nel 1924 si estinse davanti agli occhi compiaciuti dei nazionalsocialisti, che incassarono il loro atroce dividendo politico. 
I giochi degli specchi non sono mai utili se non come provocazione intellettuale, ma le conseguenze delle “crisi del debito” che nell’ultimo nostro decennio hanno raggiunto il centro del sistema capitalistico riecheggiano sinistramente il sonnambulismo della classe politica fra le due guerre. Il contesto economico internazionale attuale è evidentemente diverso, ma l’entità del problema e la fragilità delle democrazie occidentali lo sono assai meno.