Il Sole 24 Ore, 15 agosto 2021
Antonio Pigafetta cronista giramondo
Pigafetta è uno scrupoloso documentarista che descrive quel che vede – fiori, frutti e animali sconosciuti in Europa – e che trascrive in un glossario le poche parole necessarie per comunicare con i nativi; ma è anche un inviato speciale ante litteram. Raccoglie informazioni sui costumi delle popolazioni che incontra, – dal Brasile alla Terra del Fuoco e dalle Filippine alle Molucche -, e quando riferisce, per esempio, delle fanciulle che ingravidano per effetto del vento, o degli uccelli di Giava che trasportano bufali ed elefanti sulla cima degli alberi; o, ancora, delle donne della Malesia che hanno orecchie tanto grandi da coprire l’intero corpo, cita sempre la fonte – l’interprete, il pilota o i nativi del luogo – e si avvale di formule generiche come: «ci dissero, mi raccontarono» e simili.
E poiché, come si sa, nella sonora Casa della Fama di Ovidio, così come nelle più frequentate portinerie dei nostri palazzi, è sempre dal “sentito dire” che nascono le leggende; anche nel caso di Pigafetta sono soprattutto le illazioni fantastiche degli indigeni di certe tribù a trasformare il suo meticoloso racconto in un’impellente lettura.
Prima fra tutte queste illazioni, la curiosa convinzione dei nativi del Verzin [Brasile] che, alla vista delle scialuppe calate dalle grandi navi venute dal mare, si dice fossero convinti trattarsi delle loro figlie, partorite nell’oscurità della stiva...
Dopo tre anni di perigliosa navigazione, solo una delle cinque caracche, seppur malconcia e rappezzata, fece ritorno a Siviglia. Aveva un carico di 26 tonnellate di spezie. Una fortuna, se è vero – come ho letto – che il pepe valeva all’epoca più dell’argento e che con un sacchetto di nemmeno una libbra ci si comprava una casa.
Della variopinta ciurma di 256 uomini partiti dalla Spagna solo 19 sopravvissero. E tra questi, per nostra fortuna, Antonio Pigafetta, che pure, mesi addietro, aveva rischiato di perire tra i flutti: «Andai a bordo della nave per pescare, ma me slizegarono [scivolarono] li piedi sopra una antenna, perché era piovesto [piovuto], e così cascai nel mare che niuno me vide».
Riuscì comunque a mettersi in salvo, il nostro autore, e nel rendere omaggio al suo resoconto, secoli dopo, lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez gli ha addirittura attribuito la patente di padre de «lo real maravilloso de Hispanoamérica».
«A caval donato...» con quel che segue. Ma pur lasciando da parte interi scaffali di libri in greco e latino sullo spettacolo del mondo creato, e le illustrazioni di erbari e bestiari che Pigafetta doveva senza dubbio avere in mente mentre scriveva, e che Márquez ha fatto finta di ignorare; la conclusione è che scripta manent - e quel che è scritto rimane scritto, sempreché non intervengano i neo-barbari della cancel culture -; e che è dai libri che nascono i libri.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Sul primo numero della raffinata rivista d’arte e letteratura «Verve», André Malraux pubblicò nel 1937 un articolo che confutava la leggenda – tramandata da Giorgio Vasari nelle Vite de’ più eccellenti pittori scultori et architettori, pubblicato a Firenze nel 1550 – secondo la quale Cimabue sarebbe stato colto da un moto di ammirazione vedendo il pastorello Giotto che ritraeva una pecora sopra una pietra.
Per Malraux non poteva essere l’oggetto che stava raffigurando – la pecora – a instillare in Giotto il desiderio di disegnare, bensì, al contrario, la vista di un dipinto. E questo perché ciò che stimola in un giovane la vocazione artistica è il fatto che in un dato momento gli capita di vedere un’opera d’arte – nel caso di Giotto, probabilmente una tavola dello stesso Cimabue o di un suo contemporaneo – che lo avvince assai più della cosa che rappresenta.
E per analogia, chi si trovasse oggi a leggere una delle tante versioni, riedizioni o rifacimenti della Relazione del primo viaggio intorno al mondo di Antonio Pigafetta potrebbe essere portato a pensare che l’idea di andar per mare, ancor più, forse, della vista delle navi in partenza per l’Oriente nella vicina Venezia, sia nata nella mente del giovane patrizio vicentino dalla vista malandrina di qualche mappa del globo e dal fatto «di aver avuto gran notizia per molti libri letti e per diverse persone de le grandi e stupende cose del mare Oceàno».
Ora, se è vero che al povero Don Chisciotte «del poco dormir y del mucho leer, se le secó el cerebro» (frase che, tradotta nel gergo di quando eravamo studenti, suonava come un più che benaccetto «chi troppo studia matto diventa») è ancor più vero che senza la trascrizione su carta dei canti di Omero non ci sarebbe traccia delle imprese di Ulisse e compagni; e senza Pigafetta non si saprebbe molto – cioè, il meglio – della «più superba odissea della storia dell’umanità» (Stefan Zweig, Magellano, Bur Rizzoli).
Imbarcatosi a Siviglia con il nome di Antonio Lombardo su una delle cinque caracche di Magellano in procinto di partire «verso l’ignoto» e «dar la volta al mondo» navigando verso Occidente, Pigafetta ci ha lasciato un resoconto che è in realtà un canovaccio.
Scritto in lingua italiana, con numerose forme dialettali e qualche parola spagnola, e con l’ortografia assai comune agli scrittori veneti non molto colti della prima metà del secolo XVI, fu immediatamente stampato in francese, tradotto in tedesco e spagnolo, ritradotto in italiano, e poi pubblicato in inglese (1555) in una versione tratta dalla prima edizione della raccolta Navigationi et viaggi (1550) di Giovanni Battista Ramusio.
Poco si sa, nell’insieme, della vita di Pigafetta e si ignora anche che fine abbia fatto il suo manoscritto. All’inizio dell’800, però, un benemerito topo di biblioteca, Carlo Amoretti – prima agostiniano e poi prete secolare, poligrafo e accademico di formazione enciclopedista – scovò in un andito della Biblioteca Ambrosiana di Milano uno scartafaccio (L. 103 sup) che diede alle stampe. Non è l’originale ma è il testo più antico e affidabile che ci sia pervenuto. Sfortunatamente l’Amoretti ne ha fatto una riduzione «in buona ma non ricercata lingua italiana», senza talvolta capire le forme dialettali venete e i termini tecnici.
Fu quindi Andrea Da Mosto, direttore dell’Archivio di Stato di Venezia, a curare, nel 1894, una edizione critica intitolata Il primo viaggio intorno al globo di Antonio Pigafetta e le sue regole sull’arte del navigare, che è alla base del volume messo insieme nel 1928 da Camillo Manfroni per le Edizioni Alpes di Milano, e ripreso di recente, in occasione del 500° anniversario dei tre anni di navigazione della spedizione di Magellano (1519-22), dalle Edizioni Ghibli di Milano.
Corredato da un appropriato apparato critico e illustrativo, La relazione si presenta al lettore di oggi come un ruvido libro delle favole. Ma Pigafetta non è Omero, con relativi ciclopi, sirene e lestrigoni; e nemmeno Lewis Carroll, nonostante qualche superficiale apparenza. Le stranezze di cui è disseminata La relazione appartengono al dominio della letteratura in senso lato, e non sono frutto dell’immaginazione, come ha a suo tempo spiegato l’ottimo professor Manfroni. Né – attenzione! – sono sempre il risultato dell’osservazione diretta.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Pigafetta è uno scrupoloso documentarista che descrive quel che vede – fiori, frutti e animali sconosciuti in Europa – e che trascrive in un glossario le poche parole necessarie per comunicare con i nativi; ma è anche un inviato speciale ante litteram. Raccoglie informazioni sui costumi delle popolazioni che incontra, – dal Brasile alla Terra del Fuoco e dalle Filippine alle Molucche -, e quando riferisce, per esempio, delle fanciulle che ingravidano per effetto del vento, o degli uccelli di Giava che trasportano bufali ed elefanti sulla cima degli alberi; o, ancora, delle donne della Malesia che hanno orecchie tanto grandi da coprire l’intero corpo, cita sempre la fonte – l’interprete, il pilota o i nativi del luogo – e si avvale di formule generiche come: «ci dissero, mi raccontarono» e simili.
E poiché, come si sa, nella sonora Casa della Fama di Ovidio, così come nelle più frequentate portinerie dei nostri palazzi, è sempre dal “sentito dire” che nascono le leggende; anche nel caso di Pigafetta sono soprattutto le illazioni fantastiche degli indigeni di certe tribù a trasformare il suo meticoloso racconto in un’impellente lettura.
Prima fra tutte queste illazioni, la curiosa convinzione dei nativi del Verzin [Brasile] che, alla vista delle scialuppe calate dalle grandi navi venute dal mare, si dice fossero convinti trattarsi delle loro figlie, partorite nell’oscurità della stiva...
Dopo tre anni di perigliosa navigazione, solo una delle cinque caracche, seppur malconcia e rappezzata, fece ritorno a Siviglia. Aveva un carico di 26 tonnellate di spezie. Una fortuna, se è vero – come ho letto – che il pepe valeva all’epoca più dell’argento e che con un sacchetto di nemmeno una libbra ci si comprava una casa.
Della variopinta ciurma di 256 uomini partiti dalla Spagna solo 19 sopravvissero. E tra questi, per nostra fortuna, Antonio Pigafetta, che pure, mesi addietro, aveva rischiato di perire tra i flutti: «Andai a bordo della nave per pescare, ma me slizegarono [scivolarono] li piedi sopra una antenna, perché era piovesto [piovuto], e così cascai nel mare che niuno me vide».
Riuscì comunque a mettersi in salvo, il nostro autore, e nel rendere omaggio al suo resoconto, secoli dopo, lo scrittore colombiano Gabriel García Márquez gli ha addirittura attribuito la patente di padre de «lo real maravilloso de Hispanoamérica».
«A caval donato...» con quel che segue. Ma pur lasciando da parte interi scaffali di libri in greco e latino sullo spettacolo del mondo creato, e le illustrazioni di erbari e bestiari che Pigafetta doveva senza dubbio avere in mente mentre scriveva, e che Márquez ha fatto finta di ignorare; la conclusione è che scripta manent - e quel che è scritto rimane scritto, sempreché non intervengano i neo-barbari della cancel culture -; e che è dai libri che nascono i libri.