Mi racconti il suo percorso professionale.
«Liceo classico Manzoni di Lecco, poi facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Milano.
L’interesse per la ginecologia oncologica è nato al quinto anno, quando scelsi una tesi sui fattori di rischio per lo sviluppo delle lesioni precancerose del collo dell’utero in mille giovani donne. Un ambito molto concreto e tangibile su cui poter fare la differenza. Compresi subito che sulla salute delle donne c’era molto da lavorare».
Come sono i numeri nel nostro Paese?
«Nel 2020 le nuove diagnosi di cancro sono state 377 mila, 195.000 negli uomini e 182.000 nelle donne. L’anno prima erano, rispettivamente, 196.000 e 175.000. Si stimano, quindi, circa 6.000 casi in più a carico delle donne. Il tumore più frequentemente diagnosticato è il carcinoma della mammella: 54.976, pari al 14,6% di tutte le nuove diagnosi, ma continua la preoccupante crescita del cancro al polmone (+3,4%), in particolare nelle over 70. Voglio però sottolineare il crescente numero di persone vive dopo la diagnosi: sono circa 3,6 milioni, con un incremento del 37% rispetto a 10 anni fa. Almeno un paziente su quattro, quasi un milione di persone, è tornato ad avere la stessa aspettativa di vita della popolazione generale e può considerarsi guarito».
Quanto è faticoso dedicarsi agli altri?
«I sacrifici in questo mestiere sono immensi. Non esistono orari, il pensiero e le preoccupazioni sono sempre con me, il senso di impotenza mi accompagna ogni istante».
Lei ha confessato che suo figlio deve molto a una vice-mamma.
Che cosa significava?
«Ho ripreso a lavorare pochi mesi dopo la nascita di Luca, che oggi è un uomo. Dopo alcune esperienze non del tutto positive, ho avuto l’incredibile fortuna che una zia ha accettato di prendersene cura.
Marilena, ex insegnante, era sempre presente, arrivava a casa nostra ogni mattina prima delle sette e se ne andava in tarda serata».
Lei dice sempre la verità alle sue pazienti?
«Meritano rispetto e pertanto devono essere informate sulla malattia. Naturalmente la modalità della comunicazione deve tener conto delle caratteristiche e delle sensibilità individuali. Cerco di essere chiara ma non catastrofica.
Quello che conta è offrire delle opzioni terapeutiche: sì, lei ha un tumore, ma abbiamo la possibilità di curarlo. Al messaggio negativo deve sempre seguire un messaggio di speranza, non di rassegnazione».
Quali parole utilizza preferibilmente?
«In genere parlo di tumore e non di cancro, parola troppo forte.
Descrivo la sua diffusione e le possibilità di cura. Alle pazienti non piace il termine metastasi e quindi parliamo di localizzazioni ma è un problema semantico perché si tratta esattamente della stessa cosa. Molto spesso le pazienti mi chiedono numeri e statistiche ma io rispondo che le statistiche servono solo ai medici. La statistica che preferisco è la seguente: ho il 100 per cento di speranza che lei guarirà».
Quanto sono coraggiose le donne?
«Più dei loro uomini, senza dubbio. Molto spesso è la paziente stessa che deve sostenere il compagno o il marito e la famiglia. Durante i colloqui ho la sensazione che la paziente abbia capito perfettamente tutto, mentre il familiare si ostina a fare domande a volte insensate e pericolose su argomenti che verosimilmente lei non vuole conoscere, oppure ha già compreso. In questi casi ammetto che mi innervosisco».
Quanto combattono?
«Non si può generalizzare. Alcune dimostrano una resilienza incredibile, sorprendente anche per me. Altre sono molto fragili, altre totalmente disperate. Dipende ovviamente dal carattere, dal vissuto emotivo, dal livello culturale. Nel 2010 ho invitato una mia paziente a fondare la prima associazione italiana sul carcinoma ovarico. Si chiama Acto Onlus, alleanza contro il tumore ovarico. Il nome è stato scelto proprio per sottolineare il patto tra medico e malato e il desiderio di combattere insieme. La presidente Maria Flavia Villevieille Bideri, diceva: per qualche motivo che mi sfugge, attorno al tumore ovarico c’è sempre stato un muro di silenzio. Anche da chi ne è stato colpito e ce l’ha fatta o da chi ci ha convissuto a lungo. Ma se la maggioranza non ne vuole più sentire parlare c’è chi invece ha deciso di lottare per rompere questo muro.
Maria citava il poeta Tagore: “Non puoi attraversare il mare semplicemente stando fermo a fissare le onde”.
Poco prima di morire continuava a lavorare all’associazione e a chi le domandava perché lo facesse rispondeva: io so di non potercela fare, ma se anche una sola donna si potrà salvare grazie a me non avrò perso».
Sono tanti gli scoramenti?
«Tanti, tutti i giorni. Il momento più difficile è quando ci accorgiamo di non avere più armi a disposizione e dobbiamo dirlo. È straziante. Vado avanti solo perché credo nella scienza e sono una ottimista.
Ricordo anche a me stessa che devo liberarmi dal delirio di onnipotenza e che la morte è comunque una realtà ineluttabile e inevitabile».
Lei ha la memoria piena di dolore.
«Sì, il ricordo di moltissime donne con le quali ho percorso il lungo viaggio della loro malattia anche per molti anni. Infatti, i maggiori successi ottenuti sul carcinoma ovarico riguardano proprio la possibilità di cronicizzare la malattia. La paziente può vivere anche tantissimi anni, pur non guarendo mai, sottoponendosi a cure intermittenti. Questo ha significato, per donne giovani con bambini piccoli, vivere così a lungo da vederli diplomati o magari laureati, oppure sposati».
L’esperienza più dura?
«Due sorelle poco più che trentenni decedute a distanza di due mesi esatti l’una dall’altra. La minore aveva una figlia di 9 anni affezionatissima alla zia. La prima a morire è stata sua madre. La bambina vedeva quindi nella zia l’unico conforto. Quando è morta anche lei, mi è stato chiesto di comunicarlo alla piccola. Ricordo i suoi occhi sbarrati per l’incredulità e la paura mentre gridava: no, anche la zia no, ti prego. Questa immagine rimarrà per sempre nella mia mente».
Per quanto si faccia, il cancro sembra imbattibile. Umberto Veronesi ammise il fallimento di ogni suo sforzo. Sarà per sempre così?
«Il passo della medicina è sempre più veloce e l’innovazione tecnologica ci consente oggi cose impensabili sino a pochi anni fa. La tecnologia avanza molto più rapidamente delle nostre conoscenze. La possibilità di sequenziare l’intero genoma, di caratterizzare le neoplasie e di identificare quali siano i meccanismi molecolari determinanti offrono importanti prospettive terapeutiche.
L’avvento della immunoterapia mediante farmaci che rilasciano il blocco della risposta immunitaria indotta dal tumore ha modificato radicalmente il trattamento di neoplasie giudicate incurabili. Per non parlare degli organoidi, la possibilità di ricostruire artificialmente il tumore del singolo paziente con tutto il suo microambiente in vitro, e di testare quindi i farmaci più attivi».
Non è mai stata tentata dalla resa, di sussurrare a se stessa: non ce la faccio più?
«La mia grande paura è il burn-out, che sta sempre sulla porta della nostra professione. Significa perdere le energie, l’entusiasmo, la passione. Ma poi penso al sorriso delle donne guarite e so che vale la pena resistere».