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 2021  agosto 15 Domenica calendario

In morte di Piera Degli Esposti

Aldo Cazzullo, Corriere della Sera
La voce «attore» del dizionario Zanichelli è scritta da Piera Degli Esposti. Dice: «Io penso che l’attore abbia un compito nella vita, arduo ma splendido: quello di consolare. Consolarci dei nostri lutti, degli abbandoni, delle malattie, della vecchiaia e della morte. Per essere attori, quindi, non mi sembra sufficiente la bella dizione, la bella voce, la disinvoltura, l’elegante quanto narcisistico porgere, ma bisogna calarsi nel proprio buio profondo, per risalire poi portandosi alla luce». 
Sentite come Piera raccontava una delle giornate più drammatiche della storia repubblicana. «Dovevo andare a Siracusa, per recitare al teatro greco, nel ruolo di Elettra. Non stavo molto bene, i medici mi avevano consigliato di evitare l’aereo, di muovermi piuttosto in treno o in nave. Dunque chiesi all’amministratore dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di farmi avere i biglietti in via Caetani, nel centro di Roma, dove c’era la Fondazione del Teatro Greco. La mattina che arrivai per prendere questi biglietti, naturalmente ero da sola: tutti gli altri attori andavano in aereo. A via Caetani il portone era chiuso e sulla via c’erano solo due macchine. Una era una Cinquecento lontana e una era una Renault rossa, davanti agli scalini. Aspettando l’amministratore, che si chiamava Aristide Brusa, ero indecisa se sedermi sugli scalini o poggiarmi alla Renault che era lì. Decisi per la Renault. Passata un’ora e più, mi sono allontanata per andare al bar a prendere certe pastarelle e un caffè e poi tornare lì. Speravo sempre, verso mezzogiorno, di vedere apparire questo Aristide Brusa. Sono rimasta appoggiata alla Renault un’altra ora e più. Credendo che ormai Aristide Brusa non sarebbe più arrivato, visto che era l’ora di pranzo, vado a cercare il numero dell’Istituto del Dramma Antico su un elenco telefonico al bar Bernasconi, per dire che non avevo ricevuto i biglietti perché il portone era chiuso. Mentre sono lì a comporre il numero, sento tanta gente che urla “C’è Cossiga! C’è Cossiga!”: il ministro dell’Interno stava arrivando a via Caetani. Si sentono tante sirene. Poi al bar accendono il televisore e vedo comparire la macchina su cui ero stata appoggiata tutta la mattina. La aprono e c’era dentro questo fagotto, che poi era Moro. Mi sento mancare. Mi viene a prendere la mia amica e collega Ida Bassignano, mi porta a casa sua e telefona a mio fratello Franco, che allora faceva il politico a Bologna: “Sono Ida Bassignano, le passo sua sorella”. E lui furibondo: “Ma cosa vuole mia sorella, non è il momento, è successa una cosa terribile…”. “Ma è proprio di questo che sua sorella le deve parlare…”. Non mi credeva nessuno. Mi hanno convocato pure i magistrati del caso Moro, molto insospettiti: “Ma perché lei si è appoggiata proprio a quella Renault rossa?”».

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Rodolfo di Giammarco, la Repubblica
È insopportabile saperlo, e comunicarlo: la storia di Piera Degli Esposti è finita. La nostra più grande artista- contro, la più tumultuosa, la più visionaria, l a più spericolata, la più irresistibile attrice italiana degli ultimi cinquant’anni e passa dello spettacolo ha abbandonato la scena dell’arte e del mondo, spegnendosi ieri a Roma per complicazioni cardiache e polmonari.
Bolognese, cittadina romana, ottantatreenne, questa pasionaria del teatro e musa dolente/ridente del cinema che avrebbe mandato in visibilio Savinio, Tofano e Ionesco e che ha recitato al cinema con Pasolini, Sorrentino e Bellocchio ci ha convinti che Eschilo e Campanile pari sono, che Joyce e Viviani hanno lo stesso ritmo ondoso, che Cleopatra o la Madonna producono sempre il su e giù di un grafico del cuore. Ostinata. Perturbante. Consolatrice. Estatica. Umanissima. «Io sono fracassona - si autoritraeva - non sono a modino, non ho grazia e fianchi a posto, ho cominciato da piccola a parlare da sola, ho una struttura da guerriera etrusca, sono rimasta la mia bambina, sono una più volte scartata dall’Accademia dove mi trovavano atipica, una che ha sofferto per anni di pneumotorace e di una sinfonia polmonare wagneriana».
Non è mai stata normodotata, Piera, e facendo tirocinio negli anni 60 al Teatro 101 di Roma diretto da Antonio Calenda impersonò un ragazzaccio in un testo di Gunter Grass meritandosi un «Bravo!» al maschile da Giorgio De Chirico, poi fu La folle di Chaillot e La figlia di Iorio per Cobelli finché a scombinarla definitivamente e ad avviarla a una soglia di incandescenze è la Molly Bloom dell’ Ulisse di Joyce, cui approda, guidata da Ida Bassignano, eleggendo a teorema fisiologico e maiuscolo un “Molly cara” che dal 1978 in poi rimarrà il suo universale esercizio di non-stile. «M’è sempre piaciuto fare teatro come un bambino grasso che impara a camminare, coi miei cinque minuti da torero in camerino prima d’andare in scena pensando d’avere vicino tutta la famiglia, quella mamma un po’ così, quel padre che mi sosteneva dicendo “Farai fatica”, non amando le case dove tutto è certezza, tipo il Piccolo Teatro, dove Strehler non capì il mio “no”, perché per me il teatro era e resta l’albero dell’immaginazione, dove io devo al movimento delle donne la riuscita di me attrice non tradizionale».
Le sue confidenze creative (il fratello Franco le consigliò di sviluppare il mestiere dell’intervistata), la sua libertà di movimento, il suo chiacchierio senza consecutio, la sua cantilenante poesia, i suoi rap marciapiedati, tutte le sue manipolazioni gentili o grinzose sono state un alto affronto all’antiquariato della prosa. Lo percepimmo nelle geometrie della partita a due che Massimo Castri le commisurò in un Rosmersholm di Ibsen da giocarsi con Tino Schirinzi.
Uno Schirinzi anche partner nella vita, come lo fu Marco Ferreri, e come lo furono i più giovani Massimo Liguori Scaglione e Alberto Casari, tutti registi. Che piacere, aver spiato la sua connivenza con Ronconi quando provò con lui a Rimini una scena dei Giganti della montagna .
Che impeti, nel suo dare corpo e voce a una Berenice di Racine, o a una Duse, o a una liberatoria figura di Achille Campanile in sintonia con ogni strato pop di suoi nuovi cultori. Per fare subito dopo i conti col suo geniale bla-bla impuro in Stabat Mater di Antonio Tarantino «nei panni di una Maria sboccata e indecente, straccivendola che insulta il mondo, sorella povera di Molly. Dalla partitura jazzata di Dondolo di Beckett a questa donna all’ultimo stadio, alla Rappresentazione della Passione medievale fatta nel lager nazista della Risiera di San Sabba, alla mia Clitemnestra che scopre il seno implorando Oreste, all’Atena divinità altera in Eumenidi , ho impersonato ovunque l’eccitamento maniacale ereditato da mia madre, messo a tacere col teatro, con l’analisi, col tempo dolce in luogo di quello cattivo prodotto da ansia e affanno. Fede, buddismo e fantasia sono l’antidoto al mal di vivere ». Ora ci rimane la Storia di Piera scritta da lei e Dacia Maraini, il romanzo noir un po’ autobiografico
L’estate di Piera buttato giù a quattro mani con Giampaolo Simi, ma non ci rimane più Piera.

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Katia Ippaso, Il Messaggero
Come buddista, credeva alla reincarnazione e all’eterno ciclo di morte e rinascita: per questo, ci piace immaginare che Piera sia entrata solo in uno stato di latenza. Fino a ieri, la sua onda alta era visibile al nostro orizzonte. Oggi si è ritirata al fondo dell’oceano, in attesa di una nuova forma. Intanto, per 83 anni, la sua anima ha preso in questo nostro tempo la forma incantevole di una artista nata a Bologna e trapiantata a Roma, una allegra ribelle che fin da ragazza non ha avuto pudore a raccontare la sua storia irregolare che trova nella figura di una madre straripante, scandalosa, il suo punto di origine (Storia di Piera, libro scritto nel 1980 con Dacia Maraini, divenne nel 1983 un film di Marco Ferreri, Hanna Schygulla e Isabelle Huppert), una visionaria che riusciva a rendere mito ogni quadro di vita quotidiana. 
Il suo ultimo libro, L’estate di Piera, scritto assieme a Giampaolo Simi (Rizzoli, 2020), è un giallo in cui il suo alter ego, Piera Drago, si fa investigatrice per caso, trasformando in racconto gli elementi della sua plastica autobiografia: il desiderio, purtroppo mai realizzato, di interpretare Riccardo III, il bisogno di trasformare la sua casa e la via del Governo Vecchio in un palcoscenico a cielo aperto. Ecco, in Piera, ciò che accadeva dentro, si vedeva anche fuori. Per lei non esisteva la voce tabù. Questo non faceva di lei però una provocatrice. «Sono stata sempre una donna mentale, anche per reazione a mia madre, che era la mia amica nemica» ci confessò il giorno del suo ottantesimo compleanno, che i suoi amici festeggiarono per una settimana. «Ho sempre festeggiato il mio compleanno, perché mi piace celebrare la mia nascita. Mi voglio molto bene e sono contenta di essere in questo mondo» ci disse candidamente. Forse il più rivoltoso dei messaggi, elaborato da una donna che non temeva invidie e accettava i doni della vita. Il dono del talento, prima di tutto. Piera degli Esposti debuttò giovanissima all’inizio degli anni Sessanta nel leggendario Teatro Centouno diretto da Antonio Calenda, dove incontrò Nando Gazzolo e Gigi Proietti. L’esordio televisivo è del 1966, con Il Conte di Montecristo. Al cinema, invece, debutta l’anno successivo con il film Trio diretto da Gianfranco Mingozzi, a cui seguirà Questi fantasmi di Renato Castellani. Nel 1969 Pasolini la vuole in Medea, i fratelli Taviani in Sotto il segno dello scorpione. Attrice anomala, di timbro inconfondibile, ha portato una nota avanguardistica, una sua personalissima sintassi musicale, in qualunque cosa facesse: «Ho sempre avuto una forte convinzione del mio metodo: un battere e un levare, continuo, con la voce, come chi parla contemporaneamente verso l’alto, fuori, e sottovoce, a sé stessa». 
Di vocazione antipsicologica, era la perfetta interprete dei testi di Achille Campanile che, con le modulazioni della sua voce, sapeva restituire come fosse scrittura vivente. Il cinema non l’ha molto corteggiata, a parte alcune eccezioni: Marco Bellocchio (nel 2003 vinse il David di Donatello come migliore attrice non protagonista per L’ora di religione) e Paolo Sorrentino (recitava nel ruolo della segretaria di Andreotti, ne Il divo). Ma Piera non soffriva certo per questo. Per lei la sofferenza andava protetta, destinata solo ai commiati, alle morti precoci. Nel 2000 il suo compagno, più giovane di lei di 29 anni, morì in seguito a un incidente stradale. «Quando mi arrivò la notizia dell’incidente mortale di Alberto, il mio corpo divenne immediatamente sordo. Avevo bisogno di migliaia di litri d’acqua. I mesi passavano e io non riuscivo a riacquistare l’udito. Tornò dopo molto tempo».
Negli ultimi mesi, Piera non usciva più dalla sua casa di via del Governo Vecchio. Era cosciente della fine imminente, ma non si lamentava per questo con gli amici che l’accudivano. Di una sola cosa si dispiaceva: di non poter fare più la sua preghiera ad alta voce. La sua difficoltà di respiro glielo impediva. Ma niente e nessuno potrà spegnere la voce di Piera.