Corriere della Sera, 15 agosto 2021
Il delitto mai risolto di Antonietta Longo (1951)
Un cadavere è un oggetto. Si può maneggiare, spostare, manipolare e pure dividere in pezzi. Non protesta, non fa resistenza, non si lamenta: perché è un oggetto.
Certo, è stato qualcosa di diverso, di profondamente diverso: è stato autonomo, in possesso di volontà, di autodeterminazione. Era pieno di riso e di pianto, aveva illusioni e delusioni, aveva desiderato ed era forse stato desiderato. Questo però prima, molto prima di diventare un oggetto.
Pensate a un barchino, che va su un lago vulcanico non lontano da una grande città. Immaginiamo che sia Roma, e che sia l’estate del 1955, l’inizio di un caldissimo mese di luglio. Pensate a due amici, che decidono di approdare in un punto non molto frequentato. Cicale, un minimo di vento, il solito odore di palude delle rive del lago. Zanzare.
Pensate a uno dei due che resta a bocca spalancata davanti a un oggetto. A qualcosa che non ti aspetti di trovare. Forse l’odore di decomposizione, a pensarci bene, non è quello solito delle rive del lago. Un cadavere è un oggetto, ma è un po’ diverso da tutti gli altri.
Ci mettono un giorno, un intero giorno i due amici a decidere di avvisare i carabinieri. Ventiquattr’ore di ping pong tra il dovere civico e il mi faccio i fatti miei, con la compassione che fa pendere la bilancia dalla parte giusta, alla fine, perché un cadavere è sì un oggetto, ma non assomiglia a nessun altro oggetto.
Chissà quante illusioni avevi nella testa, Longo Antonietta da Mascalucia, Catania, a servizio fino a qualche tempo prima presso una famiglia romana, dalla quale ti eri allontanata senza eccessive spiegazioni. Chissà che fine avevano fatto le tue illusioni, Antonietta: e già che ci siamo, chissà che fine aveva fatto anche la tua testa, che non era attaccata al povero corpo ritrovato sulle rive del lago, recisa sul posto come reso evidente dal sangue che inzuppava il terreno fino a dodici centimetri di profondità. E recisa con perizia e senza fretta, come reso evidente dalla tipologia e dalla nettezza dei tagli.
Non che fu tutto facile da capire, naturalmente. Non fosse stato per l’orologio particolare che era l’unico indumento, per dir così, addosso all’oggetto cadavere ritrovato sul lago, magari nemmeno ti avrebbero riconosciuta. Non erano tempi da Dna, quelli, e le povere mani erano consumate dalla decomposizione e da chissà che altro, niente impronte, e peraltro non eri censita in nessun database, Longo Antonietta di anni trenta che avevi fatto una valigia e prelevato tutti i tuoi risparmi, che non erano pochi, trecentoundicimila lire, una gioventù di sacrifici e niente divertimenti in attesa di un matrimonio e di un figlio. Ci vollero giorni di indagini accurate e di lavoro di gambe, per incrociare quell’oggetto manipolato sulla riva del lago e la denuncia di scomparsa della famiglia presso la quale avevi lavorato, e che all’improvviso non ti aveva vista più.
Chissà dove le hanno portate, la tua testa e le tue illusioni. Chissà chi se le è portate via. Magari quello che credevi un fidanzato e pensavi ti avrebbe finalmente cambiato la vita, forse te l’aveva promesso, forse i tuoi occhi avevano creduto ai suoi, e invece aveva altri interessi, forse i tuoi risparmi, che non erano pochi perché una ragazza catanese sa lavorare tanto e fare tanti sacrifici; forse il tuo corpo prima che diventasse un oggetto, una bella pelle forte e intensa, non solo una sera ma tutta la vita. Oppure il medico dal quale ti avevano portata per abortire, un figlio forse non è ancora il momento, vedrai che più in là ne avrai quanti ne vuoi. Chissà che ne hanno fatto, della tua testa e delle tue illusioni.
E chissà chi scrisse le lettere anonime sedici anni dopo che l’oggetto che era stato il tuo corpo, Antonietta, fu ritrovato, quando ormai di te non restava nemmeno il ricordo e nessuno cercava più il tuo assassino. Lettere in cui si parlava dell’aborto finito male, di un fidanzato pilota già sposato, di una testa dissolta nell’acido: e di nuovo indagini e di nuovo ricerche, senza alcun esito, senza risultato. Di nuovo. Chissà se anche quelle lettere erano un’illusione.
Ci fu chi si ricordò di te quando dopo altri sedici anni un pescatore trovò un cranio nel lago, a poca distanza da dove ti avevano tolto la testa e forse le illusioni. Ma risultò essere il cranio di un uomo, chissà di chi, poi.
Il cadavere, alla fine, è solo un oggetto. Come tanti. Ma le illusioni no, quelle rimangono nell’aria. E non se ne vanno.