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 2021  agosto 14 Sabato calendario

Mastrogiacomo racconta come Strada lo salvò dai talebani

Un sorriso. Il primo, dopo 15 giorni e 15 notti. E poi quell’abbraccio forte, mentre le lacrime mi bagnano le guance e la barba incolta. Quindi poche parole, quasi pronunciate con un soffio. «Bentornato. Ho lottato per strapparti alla morte, per convincere Dadullah a non tirare fuori il coltellaccio dal suo fodero». Era il 19 marzo del 2007, il primo giorno di libertà dopo il sequestro da parte dei talebani. Gino Strada, ora che non è più tra noi, lo ricordo così. Un leone. Vulcanico, con la testa piena di idee e progetti, umorale, intenso. Nervoso e autoritario. Coraggioso, altruista e insieme egoista. Ma anche scaltro, capace di muoversi tra due fuochi. Era nato per questo: curava e salvava i feriti delle guerre. Ovunque nel mondo. Era un medico, un chirurgo. Ma era soprattutto un combattente. Scomodo e anche utile. Non aveva remore. Ti affrontava e ti sommergeva con le sue idee. Diretto e insieme ambiguo. Nelle zone dei conflitti dove saltano tutte le regole bisogna essere così.
«Ti dirà tutto Gino», mi ripete all’infinito Rahmatullah Hanefi, il responsabile logistico dell’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, l’uomo che mi è venuto a raccogliere nel profondo sud dell’Helmand. L’unico che ha avuto la forza e il coraggio di incontrare i talebani del mullah Dadullah nella loro terra: sulle sponde del fiume che prende il nome dalla regione meridionale dell’Afghanistan. Lo ascolto a fatica. Tremo, mi guardo attorno ancora pieno di paura e di sospetti. Ho imparato a diffidare di tutto e tutti. Anche di quest’uomo. In mezzo ai telabani che sparano raffiche di Ak-47 in aria per accogliere i prigionieri da scambiare con me e il mio collega afgano Ajmal, mi prende per mano e mi sussurra: «Meglio andare adesso. Tranquillo, sono un amico, sono di Emergency». Solo allora capisco chi ha trattato la nostra liberazione.
Ci seguono le macchine degli helder, i capi tribù, che garantiscono il passaggio nei loro territori. Hanefi non lo dice ma sa che sono ancora nel mirino di altri gruppi di talebani. Bottino ghiotto. Nell’Helmand non si parlava d’altro, verrò a sapere una volta libero. Ci riusciranno con Ajmal che nel frattempo viaggiava su un altro convoglio. Arriviamo dopo un viaggio di sei ore. È già buio. Riconosco a fatica il compound di Emergency a Lashkar Gah. Gino Strada è sulla porta d’ingresso. Mi viene incontro. Mi abbraccia. Lo stringo forte anche io: ho bisogno di affetto. Gli dico solo più volte: «Grazie, grazie per quello che hai fatto». Lui scuote la testa: «È stata dura ma ci siamo riusciti. Adesso riprenditi. C’è mezzo mondo che ti cerca. Tu fai quello che devi fare». Sono bloccato, gli chiedo notizie. Gina, la sua assistente, e gli altri del compound si assicurano che stia bene, mi mettono delle gocce tranquillanti negli occhi. Sento il giornale, il direttore Ezio Mauro che si è battuto come un leone. Scrivo l’articolo. Mi servirà come sfogo terapeutico.
Gino entra ogni tanto nella stanza. Mi guarda, non dice nulla. È già alle prese con il giallo su Ajmal. Pensa che sia stato portato alla polizia. Mi sciolgo il turbante che copre la ferita inferta durante il rapimento con il calcio di un kalashnikov. Strada la guarda, ci svuota sopra due pasticche di antibiotici. Ma è scuro in volto. Sento che hanno arrestato Rahmatullah. La partita non è ancora chiusa. Anzi. Si tratta di uscire da Lashkar Gah e di lasciare l’Afghanistan. Gli inglesi non sono disponibili. Parliamo in modo distratto. Ci sono altre priorità. Gira voce che i talebani mi vogliono di nuovo rapire.
Mi cambio, infilo una felpa, mi nascondo sotto un letto. Dormirò poco e male. Per terra, come ho fatto per due settimane. La mattina mi svegliano delle urla. Sono quelle di Strada. Un centinaio di afghani premono all’ingresso. Una delegazione viene fatta entrare. Mi chiedono di Sayed Agha, il nostro autista. Dico, quasi sorpreso, lo sguardo basso: «Lo hanno ucciso». Pugni sul tavolo, altre urla. Momenti di fortissima tensione. Guardo Gino che è al mio fianco. Ha lo sguardo basso, scuro, serio. Annuisce, spiega che verranno aiutati. Più tardi. Adesso bisogna raggiungere il fortino inglese e da lì con l’elicottero un avamposto dei militari italiani. «Tu monta in auto», mi dice Strada, «e nasconditi sul fondo». Mi copre con una coperta. Sento Gino che parla con l’autista. È teso, ha paura di un agguato. Ci muoviamo con calma, facendo strade secondarie. Arriviamo alla base britannica.
Lo rivedrò a Milano, al funerale di sua moglie Teresa, nel settembre del 2009. L’ho risentito questa settimana. Era stanco, la voce sempre più profonda. Sono tornati, gli ho detto. L’avresti mai detto? «Era prevedibile», aveva risposto. «È il disastro delle guerre». Torneresti a Kabul? «No – aveva aggiunto – Sono troppo vecchio per muovermi e viaggiare. Mi manca ma soffrirei troppo vedere i danni umani provocati da questo conflitto. Siamo tornati nel passato. Vent’anni cancellati in pochi giorni. Un’assurdità. La colpa non è degli afghani, è della guerra».