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 2021  agosto 14 Sabato calendario

In morte di Gino Strada

Piero Colaprico, la Repubblica
Amava la vita, tutte le vite, e odiava la guerra, tutte le guerre. Intorno a Gino Strada, morto a 73 anni ieri a Rouen, dov’era in vacanza (e da tempo era molto malato), si è levato un cordoglio quasi generale e internazionale, con numerosi politici, da destra a sinistra, che lo ricordavano per quanto ha fatto in mezzo mondo, per le centinaia di migliaia di persone curate. Va anche detto che Strada aveva per alcuni servizi segreti e per alcune diplomazie filo-atlantiche anche una sorta di doppia anima, ma non si è mai andati al di là dei sussurri: il dato, visto anche il peso politico di Strada, va comunque registrato, anche se le luci sono molto di più delle ombre.
Era nato nella periferia milanese inconsapevolmente aristocratica chiamata "Stalingrado rossa": a Sesto San Giovanni, cittadina operaia cresciuta con la Falck, la Marelli, la Pirelli, le ciminiere e le rastrelliere per decine di migliaia di biciclette. Figlio di due operai, s’era ritrovato adolescente in parrocchia, con l’ex presidente delle Acli e deputato, Giovanni Bianchi. Il futuro medico non ha però vocazioni da santo.
Si dichiarava ateo. Un uomo sin troppo diretto. Intransigente. A tratti volutamente sgradevole e, come si sente ripetere, «divisivo». Eppure, nello stesso tempo, un essere umano scapigliato e scanzonato, capace di "staccare" dal dolore e passare le serate a tavola a discutere di tutto, bravissimo ai fornelli, in grado di cucinare una paella memorabile. Dopo il liceo classico al Carducci, in piazzale Loreto, lo stesso di Bettino Craxi, Claudio Martelli, Armando Cossutta, la laurea è inevitabilmente all’università Statale. Negli anni delle contestazioni fa parte del Movimento studentesco, si occupa del giornale. E dalla sua passione per la scrittura nasce il libro che lo rende famoso: Pappagalli verdi , edito da Feltrinelli nel 1999.
Il titolo deriva dalla forma di alcune mine anti-uomo. Sono costruite come giocattoli, con l’idea che siano soprattutto i bambini a raccoglierle. E quindi i primi a morire.
La forza con cui, intervistato, Strada sa raccontare la crudeltà dei teatri di guerra aggrega d’improvviso intorno alla "E" rossa di Emergency, la Ong fondata con la prima moglie Teresa Sarti, decine di migliaia di pacifisti di ogni età, credo, censo. Strada diventa trasversale in un’epoca nella quale non si parlava come adesso di "volontariato". Lui è un semplice volontario disarmato. Uno che senza dire niente a nessuno, almeno così era all’inizio della lunga carriera, rischia la vita al fronte, in mezzo a morti, feriti, malati, contagiati. Armato di bisturi e medicine. Sostenuto da amici. Punto di riferimento di moltissimi colleghi medici. E con le sue capacità di abile navigatore del mondo, compreso un inglese perfetto. Se sa resistere dove cadono le bombe, volano i proiettili e bisogna stare attenti a calunnie, dossier, rapporti torbidi con spie e assassini, per i suoi nemici dipende dai rapporti che mantiene con le popolazioni, uno scambio in cui la cosa essenziale per Strada è curare senza chiedere i documenti e per gli altri, per lasciare l’ospedale in zona neutrale, chissà quale sia la cosa essenziale. Ma chi l’ha conosciuto bene sostiene che Strada non solo era onestissimo, ma in qualunque tragedia fosse immerso, sapeva sempre dove tornare: nella modesta Sesto San Giovanni, dove aveva trovato moglie e dove, quando poteva, andava al bar osteria "La Teresa", per giocare a boccette.
C’è stato, dopo la popolarità dilagante, un Gino Strada che nelle manifestazioni contro la guerra è in prima fila, che muove le masse. È a questo Gino Strada che vengono offerti vari ruoli nella politica attiva, ma dice sempre no. Anzi, scatena a sinistra polemiche feroci. A cominciare da Massimo D’Alema, che aveva concesso le basi italiane per il bombardamento sull’ex Jugoslavia. In quel periodo Strada smette di votare, se la prende ancora con Romano Prodi e D’Alema per la guerra in Afghanistan. E come racconta al nostro Gianni Mura, «con la guerra si prepara solo un’altra guerra». Non sta con gli Usa o i tabelani ma, ripete, «sono contro i pazzi », quelli che usano le armi.
Fedele a questo schema, ha finito per litigare con moltissime persone. Per un breve periodo, persino con la figlia Cecilia sulla gestione di Emergency. Ora che è morto nell’amata Normandia, con accanto la seconda moglie, Simonetta, sposata a giugno, si può dire che Gino Strada muore "povero". Senza lasciare beni materiali, titolare di una pensione un po’ disastrata.
Il suo è un lascito diverso, che fa dire al presidente della Repubblica Sergio Mattarella che Strada «invocava le ragioni dell’umanità» e al presidente del Consiglio Mario Draghi che «ha trascorso la sua vita sempre dalla parte degli ultimi». Un lascito forte, che sta commuovendo Milano: almeno la parte che conserva un pensiero per gli altri.

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Andrea Galli, Corriere della Sera
Che momento è, dottor Moratti?
«Stiamo cercando di aiutare col rimpatrio, dare una mano per quanto e come possibile. Avevo sentito Gino due giorni fa. Aveva progetti, come sempre, ma questa volta doveva preoccuparsi della propria salute. C’erano problemi, lo sapeva, ma nessuno pensava che, così velocemente... Oh, il mio amico Gino. Ha in mente l’amico perfetto?».
Massimo Moratti non è uomo da anteporre se stesso alla memoria di chi non c’è più, di mettersi in prima persona esibendo vanto e retorica.
Chi è un amico perfetto?
«Quando Gino era a Milano ci incontravamo anche due, tre volte alla settimana. Ore e ore, e non bastavano mai. Si parlava, ci si emozionava, si rideva, ci si preoccupava... Non che stessimo lì a raccontarci il lavoro, le cose note, insomma quelle che ci impegnavano tutto il giorno. Con l’amico perfetto ti lasci andare e dialoghi sulla vita, la meraviglia della vita svelata da un incontro, un gesto, un viaggio, una scoperta, un incrocio di sentimenti. Il pensiero che andava alle nostre mamme e ai nostri papà, e ai compagni dell’esistenza; il pensiero di noi due da bimbi; il pensiero ai figli, le parole che magari non abbiamo detto loro oppure che loro ci hanno detto e che, senza darlo a vedere per pudore, per riservatezza, ci hanno invece scosso l’anima; il pensiero a malattie, a morti, a piccoli innocenti che non si era riusciti a salvare; il pensiero all’eroica dignità di certe sofferenze».
Quand’è che vi siete conosciuti?
«Credo all’inizio degli anni Novanta, forse in seguito a un’amicizia delle nostri mogli. Ma non ha importanza, anche se per fortuna ci siamo uniti e aggiungerei mai più lasciati, ma ha importanza quanto di eccezionale è venuto dopo».
Voi Moratti avete sostenuto con intensità Gino Strada.
«Certo, ma che cosa vuole... Abbiamo fatto quello che dovevamo fare, e su, sono gesti che non vanno mai pubblicizzati. Poi, lui...».
Lui?
«Eh, non teneva niente per sé. Con “niente”, intendo proprio nemmeno il minimo indispensabile. Non aveva mezzi, e non era una maschera, non era il calarsi in un personaggio... Mi genera dei sorrisi, il mio amico Gino... E quella sua utopia della pace del mondo? Attenzione: nella sua testa non era affatto un’utopia, ci credeva davvero».
L’ha mai seguito fisicamente in qualche missione?
«Mi invitava in ogni angolo possibile del pianeta. Ma c’era un luogo, un ospedale in Uganda, una delle mille sue enormi imprese, che gli provocava una trepidazione particolare, dolcissima. Ora, non voglio fare una difesa che potrebbe apparire di parte. Lo stesso Gino non ne ha bisogno. Ma la sua immagine pubblica, o quantomeno l’immagine che molti hanno, forse non era, diciamo, del tutto conforme».
In che senso?
«Gino non era un moralista, un predicatore, uno che stava lì a osservare e lanciare sentenze. Intanto non ne aveva il tempo. Dopodiché nelle nostre conversazioni che, ne sono convinto, erano assai sincere, non dedicava veleno ai suoi detrattori, a chi lo attaccava a testa bassa oppure a tradimento... Gino aveva le sue regole d’ingaggio, i suoi obiettivi, e cercava di raggiungerli. Con costanza, coraggio. E che coraggio pazzesco! Non partiva per un’avventura pensando a eventuali giudizi. Non gliene fregava nulla. La concretezza, punto. I deboli da aiutare, fine».
Ma questa vostra amicizia perfetta era nata anche da profonde somiglianze caratteriali?
«Beh, dei punti forse sono in comune. Ciò premesso, è stato unico... L’unicità di essere spontaneo, vero, entusiasta. Aveva questa cosa, possedeva la prorompente capacità di convincerti. Un trascinatore naturale. Sono stato e rimarrò un privilegiato. Il mio amico Gino brontolerà e cambierà argomento, ma è così».

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Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano
La cosa peggiore della morte di Gino Strada è il pensiero che non ci metterà più in crisi con le sue invettive intransigenti e spiazzanti. Ora tutti, i pro e gli anti, lo dipingono come un santino del buonismo: chi l’ha conosciuto sa che era un uomo buono, ma quanto di più lontano dal buonismo. Personaggio difficile, ruvido, spigoloso, capace di grandi slanci e altrettanto grandi sfuriate. Come tutte le persone di carattere, ne aveva uno pessimo. Parlando chiaro e rifiutando i compromessi si era fatto molti più nemici che amici. A destra, ma anche a sinistra. In un Paese che etichetta tutti con le bandierine dei partiti, pochi capivano che era anzitutto un chirurgo. Quando gli portavano un corpo squartato da una bomba, una scheggia, una mina, una pallottola vagante, non pensava a nazionalità, bandiera, fede politica o religiosa, né riusciva a derubricarlo a “effetto collaterale” di missioni o strategie superiori: lo curava e basta. Perciò era contro tutte le guerre e i traffici di armi: perché ne vedeva gli effetti sulla carne viva degli uomini. Non era un politico, anche se faceva politica da cittadino. Non avrebbe potuto fare il ministro degli Esteri, perché se ne fregava delle alleanze e delle convenienze. Ma sarebbe stato un ottimo ministro della Salute, perché avrebbe levato fino all’ultimo centesimo pubblico alla sanità privata. Gli insulti da ogni parte politica (gli ultimi quando Conte lo chiamò a dare una mano in Calabria) erano per lui il migliore complimento. Non era temuto tanto per quel che diceva, quanto per la credibilità con cui lo diceva: la gente vedeva in lui un uomo vero e lo stava a sentire. Perciò non apparteneva a nessuno: perché era di tutti.


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Massimo Giannini, La Stampa
Il Gigante Buono se n’è andato. Quando penso a Gino Strada, a tutto quello che è stato, a tutto quello che ha fatto, non mi vengono in mente che queste due parole. Il Gigante Buono se n’è andato in questo agosto di fuoco, mentre si riposava in Normandia insieme a Simonetta, per una vita la sua assistente, da un mese anche sua moglie. Ho i brividi, a pensare che la nostra ultima telefonata è stata solo l’altroieri sera. L’Afghanistan è di nuovo in fiamme, la «tomba degli eserciti», dopo quello inglese e quello russo, sta seppellendo anche quello americano (e un po’ anche quello italiano), mentre i taleban lo stanno riconquistando dopo vent’anni di battaglie inutili.
L’avevo chiamato per questo: chi meglio di Gino, che in quello spicchio di mondo ci ha vissuto sette anni, ci ha costruito due ospedali, ci ha curato centinaia di migliaia di feriti, può raccontare cos’è quel Paese, quanto noi occidentali abbiamo sbagliato, cosa stiamo perdendo laggiù? E lui mi aveva risposto, come sempre, anche se era in vacanza. E come sempre aveva detto «sì, te lo scrivo», anche se era convalescente dall’ennesimo intervento cardiaco. Mai avrei potuto immaginare che quella sarebbe stata la nostra ultima telefonata. E che quello che mi aveva mandato a tarda sera sarebbe stato il suo ultimo articolo. Quasi il suo testamento morale: contro la guerra, contro la violenza, contro l’odio. Gino era un gigante. Non per il fisico, per quanto il suo sguardo fosse severo, la sua barba fosse ispida, il suo tono fosse grave. Quanto per la personalità: la sua passione civile, la sua forza etica, la sua tempra morale. Ed era buono. Perché, mentre lo curava nel corpo, guardava dentro all’anima dell’uomo. Per cercare e scambiare tutto il bene possibile, senza finzioni e senza mediazioni.
Se non lo conoscevi, non potevi capirlo né saperlo, ma era così. E io lo conoscevo, ormai da diversi anni. La prima volta ai tempi del rapimento in Iraq di Daniele Mastrogiacomo, amico e collega di Repubblica. Ebbe allora un ruolo discusso, per alcuni addirittura ambiguo. Io so solo che senza il suo intervento con i «tagliagole» (perché sì, piaccia o no lui curava pure quelli) oggi Daniele non sarebbe più tra noi. Da allora siamo diventati amici. Ho seguito le attività e partecipato agli eventi di Emergency: un «popolo» incredibile e instancabile. Due anni fa mi aveva convinto a seguirlo: «Vieni con noi una settimana, andiamo all’ospedale di Kabul e poi sulle montagne, in quello di Lashkar-Gah. Ti resteranno nel cuore…». Avevo già la valigia pronta, quando esplose la bomba devastante nel quartiere delle ambasciate, e lui insieme a Simonetta mi chiamò rassegnato. «Mi dispiace, i nostri da Kabul sconsigliano il viaggio, è troppo pericoloso». Ho ancora qui con me, dentro il passaporto, il visto che allora mi consegnò lui stesso, per entrare in Afghanistan. Una piccola reliquia, che mi conserverò.
Risultava burbero, ruvido, persino respingente. Appariva sempre un po’ cupo, anche se pochi ricordano che questa cupezza lo aggredì dopo la scomparsa della prima moglie Teresa, con la quale ha condiviso la vita, gli ideali, la fondazione di Emergency. Lui, d’altra parte, non ne parlava mai. Parlava solo dei suoi ospedali: 18 in ogni angolo devastato del pianeta, dal Ruanda alla Cambogia, dalla Serbia alla Sierra Leone, dal Sud Sudan all’Uganda, dove sta per finire l’ultimo, quello al quale teneva di più, l’ospedale verde, l’ospedale della bellezza, che ha progettato per lui «il Geometra», un altro dei suoi grandi e veri amici, Renzo Piano: avevamo presentato tutti tre insieme il progetto a Milano, tre anni fa. E lì si che la cupezza di Gino svaniva, spazzata da via da un sorriso, al pensiero di quanta bontà sprigionasse quel progetto, l’ennesimo, per curare i bimbi cardiopatici. «Quando è finito ci andiamo tutti e tre insieme», prometteva. Non abbiamo fatto in tempo.
Negli ultimi mesi parlava anche dei suoi ambulatori: 13 sparsi in tutta Italia. Li aveva pensati per curare quelli che la nostra civiltà dello scarto considera «diversi»: i migranti, i «clandestini». E poi un giorno mi confidò: «Sai, non avrei mai immaginato che, con l’esplosione delle disuguaglianze e i tagli selvaggi al Welfare, quegli ambulatori sarebbero diventati il luogo della cura anche per gli italiani poveri, esclusi e dimenticati da tutto e da tutti. Sai quanti sono? Le cifre ufficiali dicono 11 milioni, tra poveri assoluti e poveri relativi. Capisci in che dramma viviamo?». Lui curava tutti. Perché era un medico e un chirurgo, innamorato del suo lavoro. E perché era un uomo generoso, impegnato per chiunque avesse bisogno. In quasi vent’anni ha soccorso e operato 10 milioni di persone, e ne ha salvate poche di meno. Senza mai guardare niente: la fede religiosa o il colore della pelle. Senza mai chiedere niente: la carta d’identità o la carta di credito. Una cosa soltanto, contava: la cura.
Questa era la sua ossessione, speculare all’altra che sempre lo ha mosso: il rifiuto della guerra. Di ogni tipo di guerra. «Non ti far fregare - diceva - non esiste guerra giusta». Voleva addirittura inserirla in Costituzione «l’abolizione della guerra». Per questo, il Gigante Buono era anche scomodo. E non vi fate incantare dalle lacrime di coccodrillo che scorrono in queste ore. Nell’Italia senza memoria, si piange qualunque morto. Ma aveva tanti nemici. A destra e anche a sinistra. Perché trattava tutti allo stesso modo, secondo le sue idee che non mutavano con le stagioni. Accusava i partiti con equa indignazione. I governi di sinistra, dal D’Alema del 2000 che mandò i caccia nella ex Jugoslavia al Gentiloni che mandò Minniti a trattare con i libici. E i governi di destra, dal Berlusconi che partecipò all’attacco all’Iraq con Bush al Conte-Salvini-Di Maio, «per metà fascisti e per metà coglioni». Secondo la formula ipocrita e anodina oggi ricorrente, Gino risultava «divisivo». Dunque da trattarsi con le molle nei canali del servizio pubblico e con la spada dai media del mainstream sovranista. Quando conducevo "Ballaro’", tra il 2014 e il 2016, e lo invitavo in trasmissione, l’apposito, patetico "funzionario Rai" non mancava mai di farmi arrivare il solito messaggio: «Attenzione a Strada…». Io lo mandavo serenamente a quel paese. E ci ridevamo sopra, con Gino, quando ci incontravamo prima della trasmissione, al solito hotel vicino alla Stazione Termini. «Io penso solo ai miei poveri malati - tagliava corto - e non ho niente da perdere». Io lo stimavo per la stessa ragione che spingeva molti a detestarlo. La sua cifra era la radicalità: ma era un medico, non un politologo. Alcune sue idee non le condividevo: parlava da utopista, tagliava i giudizi con l’accetta. Ma lui se lo poteva permettere, perché non era un pacifista da salotto: conosceva le guerre, e ci stava in mezzo per salvare vite umane.
Parlo al telefono con Simonetta, che ora piange, piange e piange. L’altroieri sera, insieme all’articolo sull’Afghanistan, mi avevano mandato per Whatsapp la loro ultima foto, di poche settimane fa: appena sposati. Lui in camicia bianca e giacca blu, in condizioni normali «uniforme» impensabile per il Gigante Buono, lei in vestitino scuro e bouquet di fiori bianchi in mano. Gino sorride, finalmente. Per me è un’altra reliquia, ancora più preziosa. «Sai - mi confida Simonetta - stamattina mentre se ne andava mi ha sussurrato proprio questo: me ne vado via felice, ricordatelo…». Ed è così. Dopo tanti anni difficili, le sofferenze personali, i guai fisici, il cuore malato, il diabete, le operazioni, ora Gino era di nuovo felice. E voleva che si sapesse, giura Simonetta. «Per 17 anni abbiamo lavorato insieme, guardandoci sempre un po’ in cagnesco, io pensavo che lui fosse uno stronzo, lui pensava che io me la tirassi troppo. Alla fine, pochi mesi fa, ci siamo guardati negli occhi, e all’improvviso è esploso tutto quello che avevamo dentro. È stato bellissimo, ma è durato troppo poco…». È vero: è durato poco. Ma per noi, caro Gino, è abbastanza per non dimenticarti. 



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Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano
Quando muore un personaggio famoso gli epitaffi sui giornali sono sempre celebrativi, spesso omissivi, raramente sinceri. Tutti santini, e quasi mai si tratta di santi. Oggi ci tocca salutare Gino Strada, chirurgo di guerra morto all’improvviso, che detestava i superlativi, gli encomi e l’adulazione: un’insofferenza che non si è mai curato di nascondere. Milioni di messaggi di cordoglio e commozione hanno affollato in pochi minuti agenzie e social network: nessuno di questi è delle persone, migliaia e migliaia in tutti i continenti, che gli devono la vita.
Di lui bisogna dire che aveva un caratteraccio e che certamente aveva visto troppo dolore durante il suo personale giro del mondo, un passaggio all’inferno da cui non si può uscire indenni. Per tutte queste ragioni Gino Strada era un uomo con cui era difficile avere a che fare: i dolori, propri e altrui, pretendono sempre qualcosa in cambio. Quanto alto è il prezzo, lo si capisce solo alla fine. Questa volta il cordoglio per lo scorbutico dottore che era nato 73 anni fa a Sesto San Giovanni è autentico. Tutti lo abbiamo guardato osservare il giuramento di Ippocrate negli ospedali dei teatri di guerra con un velo di vergogna, un’invidia codarda e sempre con una domanda a fior di labbra: “Come ha fatto a sopravvivere?”.
Da Milano, amatissima città dove si era laureato in Medicina d’urgenza alla Statale, negli anni Ottanta si era spostato negli Stati Uniti, poi in Inghilterra e in Sud Africa finché nel 1988 aveva deciso di dedicarsi ai feriti di guerra. Lo ha fatto con la Croce Rossa, fino al 1994, in Pakistan, Etiopia, Thailandia, Afghanistan, Perù, Somalia, Bosnia. Poi la decisione che cambia la vita, e non solo la sua: nasce Emergency, associazione “neutrale e indipendente” (due aggettivi per nulla superflui) che avrebbe offerto cure gratuite e specialistiche a oltre 11 milioni di persone in 19 Paesi del mondo, dalla metà degli anni Novanta a oggi. Cioè una ogni minuto. E anche qui, in Italia: gli ambulatori di Emergency, dopo la crisi economica, sono spuntati in diverse città per curare migranti, ma anche italiani indigenti. Da anni aveva preso di mira il sistema della sanità italiana, pubblico per modo di dire, ben prima del Covid (e anche in quest’occasione, Emergency aveva messo in atto diverse iniziative a cominciare dalla gestione della terapia intensiva nel presidio della Fiera di Bergamo e alle Brigate dei volontari della solidarietà). In Afghanistan ha vissuto sette anni: ieri mattina – il destino ha un’animaccia porca – ha firmato un durissimo editoriale sulla Stampa sull’avanzata dei talebani verso Kabul. Parole chirurgiche: “La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali”. Noi compresi, con una risoluzione del Parlamento del 2001 che Strada non ha mai smesso di ricordare. Mancano memoria e conoscenza, come ha ricordato nell’articolo di ieri. Dunque nessuna sorpresa. L’uomo che con la politica ha sempre litigato nel 2013 fu candidato alle Quirinarie dei 5 Stelle per il Colle: rinunciò. Manco a dirlo.
“Le guerre, tutte le guerre, sono un orrore e non ci si può girare dall’altra parte per non vedere il dolore negli occhi di chi soffre in silenzio”. È un riassunto perfetto delle ragioni di una vita. Lo ha scritto lui nella sua biografia uscita per Feltrinelli nel 2015, in cui s’incontrano frasi che gli assomigliano molto: asciutte, sobrie, qualche volta troppo sbrigative. “Avrei voluto scriverlo ancora questo diario”, dice riportando appunti presi in Kurdistan, “ma non ce l’ho fatta perché la scrittura s’inaridisce, ogni storia assomiglia alla precedente, ed è facile immaginare cosa ci sarà da scrivere domani”. Un racconto che si snoda in luoghi e culture diverse, eppure sempre, tragicamente, uguale a se stesso: braccia e gambe volate via, un ragazzino morto suicida dopo essere diventato cieco, bambini mutilati da mine antiuomo costruite come giocattoli (“ho dovuto crederci, ancora oggi non capisco”). Il libro è dedicato all’amatissima moglie Teresa Sarti, sua compagna anche nella missione di Emergency scomparsa nel 2009 e da cui ha avuto la figlia Cecilia: nella dedica (che sta in fondo al libro) si possono capire moltissime cose dell’uomo che non voleva essere chiamato eroe. “Avrei dovuto stare vicino a lei, darle amore e aiuto. Invece ero in giro a occuparmi di gente strana, col turbante o gli occhi a mandorla, di bambini altri, di sconosciuti che ho curato perché andava fatto, ma forse, innanzitutto, per la mia personale soddisfazione. A qualcuno sarò stato utile. Che cosa io abbia guadagnato non lo so, di certo so cosa ho perso. Se tornassi indietro, rifarei quasi tutto. Vorrei solo che al mio fianco, nei tanti luoghi pieni di sofferenza che ho visto, ci fosse lei”.
Voleva cambiare il mondo, Gino. Lo disse in un’ intervista su La7 a Diego Bianchi un anno fa: “Quando ero ragazzo ero inconsciamente sicuro che diventando adulto il mondo sarebbe stato migliore. È stata una grande illusione, perché ancora una volta sta vincendo la scelta della guerra, dell’eliminazione reciproca e della violenza”. Vale sempre che dare un esempio – ottimo, buono o anche solo discreto – è già fare un bel pezzo di Strada.