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 2021  agosto 13 Venerdì calendario

Per l’Afghanistan Pechino o il ritorno di Al Qaeda

Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo». Era con queste parole che il mullah Omar, il leader storico dei talebani, anni fa prevedeva che, prima o poi, gli americani si sarebbero ritirati dall’Afghanistan e il gruppo, giocoforza, avrebbe riconquistato il Paese. Ma forse nemmeno il famigerato Omar, morto nel 2013, avrebbe potuto prevedere la velocità con cui le sue forze in queste settimane stanno conquistando provincia dopo provincia, in una chiara mossa di accerchiamento di Kabul.
Venticinque anni fa i talebani giunsero al potere con una strategia simile e l’immagine che rovina il sonno del sempre più debole governo afgano è quella dell’ex presidente Najibullah, torturato e impiccato a un cartello stradale dai talebani entrati a Kabul. Anche se molti segnali fanno presumere che questo sia lo sviluppo più probabile, è impossibile prevedere con certezza che l’Afghanistan tornerà a essere dei talebani e, se così fosse, cosa ciò significherebbe. Quello che è certo è che Biden ha fatto quello che sia Obama che Trump avevano annunciato: ha terminato la più vecchia delle forever wars, i conflitti mediorientali nei quali l’America si è impelagata post 11 settembre con forti costi economici e di vite, ma senza una visione strategica e fine. È una posizione che a Washington trova largo supporto bipartisan e che è ben spendibile politicamente, particolarmente ora che la minaccia terroristica è percepita come bassa ed il dibattito americano è quasi interamente focalizzato su dinamiche interne.
Ma non è certo difficile vedere come possa ritorcersi contro Biden. Come giustificare, per esempio, uno scenario ipotetico, ma tutt’altro che improbabile della bandiera dei talebani che svetta su Kabul il giorno del ventennale degli attentati dell’11 settembre? Non si tratta solo di un danno di immagine. Il ritiro dall’Afghanistan è solo l’ultimo di una serie di decisioni (il ritiro dall’Iraq, il non aver supportato alleati di lunga data come il regime di Mubarak durante le primavere arabe, il limitato intervento in Siria e Libia, i tentativi di riavvicinamento con l’Iran) che, prese individualmente, possono anche essere logiche. ma che, considerate insieme, mandano un segnale chiarissimo: l’America non vede il Medio Oriente come una priorità e cerca in ogni modo di limitare la propria presenza allo stretto necessario per salvaguardare interessi vitali (la definizione dei quali è poco chiara). A questo segnale rispondono di conseguenza sia amici che avversari, dando vita a un valzer di riposizionamenti strategici che sta cambiando le dinamiche geopolitiche della regione. Alleati storici come Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Giordania e perfino Israele, rimangono fedeli all’America, ma sanno di non poterci contare come in passato e per questo stringono alleanze tra loro e ammiccano a Russia e Cina, avversari storici di Washington. E sono proprio Mosca e Pechino che cercano in ogni modo di approfittare del minor peso dell’America.
Se la Russia ha assunto un ruolo importante in Siria, l’Afghanistan rientra nella zona di influenza della Cina. A fine luglio una delegazione talebana guidata dal numero due del gruppo, Mullah Abdul Ghani Baradar, è stata ricevuta con tutti gli onori a Pechino. Povero e montagnoso, l’Afghanistan non può che avere un ruolo secondario nella strategia economica globale cinese, ma sostituire Washington come potenza controllante del Paese rientra nei calcoli della Cina.
Il cerchio si chiude se si considera che i talebani sono da sempre legati a stretto filo al Pakistan, Paese che ha un rapporto simbiotico con la Cina. Non stupisce quindi che sia il Pakistan che i talebani, entrambi in teoria paladini dell’islam, non abbiano mai proferito mezza parola di condanna del trattamento inferto da Pechino alla minoranza musulmana degli Uiguri.
Ipotesi ancora più problematica per l’amministrazione Biden: l’Afghanistan sotto i talebani potrebbe tornare a essere quello che era negli Anni ’90, un santuario per Al Qaeda e altri gruppi jihadisti. Al Qaeda, indebolita ma non sconfitta, opera perlopiù nel confinante Pakistan e i talebani non hanno mai rinnegato lo stretto rapporto che lega i due gruppi – un ritorno in auge del gruppo non è certo fantascienza. Tutti scenari ipotetici al momento, ma viene difficile trovarne di positivi.
(Lorenzo Vidino è il direttore del Programma sull’Estremismo alla George Washington University)