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 2021  agosto 12 Giovedì calendario

L’algoritmo scemo e altre falle del nostro tempo

Ho ordinato un toast. Che incipit avvincente, diranno i miei tredici lettori, dividendosi poi in cinque bicchieremezzovuotisti che scuotono la testa, Soncini vuol parlarci del toast, e in otto bicchieremezzopienisti che sanno che il toast è poderosa metafora.
Ho ordinato un toast molto buono, ero sicura che avrebbe allietato la mia mattina, l’avevo già assaggiato. L’ho ordinato su Glovo, piattaforma su cui non ho mai ordinato preservativi ma spesso cibo, alcune volte funziona tutto impeccabilmente, altre volte i fattorini sono particolarmente rincoglioniti e non trovano il portone o il citofono o sa il cielo cosa. Insomma, tutto nella media.
L’ho ordinato e poi mi sono messa a fare altro e non mi sono accorta che erano già passati tre quarti d’ora. Mi chiama una signorina dell’est europeo da parte di Glovo e mi dice: volevamo avvisarti (il dramma delle piattaforme internet i cui servizi clienti ti danno del tu lo affrontiamo un’altra volta) che non abbiamo ancora trovato un fattorino e ci vorrà un’altra mezz’ora, tante consegne pochi fattorini.
Penso: è agosto. Penso: ho fame. Penso: vabbè. Senonché, dopo altri venti minuti, mi chiama Capatoast, il posto che doveva prepararmi il toast (Capatoast è un nome che avrebbe volentieri preso per il culo Cuore nella sua rubrica sui nomi scemi dei negozi, ma i toast sono buonissimi, e lo dico senza prendere soldi dal marchio per pubblicizzarlo – sto rovinando il mercato dell’influencing, lo so).
E mi dice che veramente di fattorini da loro ne sono già andati tre, ma nessuno di loro riusciva ad «accettare l’ordine». Si scusano, mi dicono che Glovo gli ha detto che ora lo ritireranno.
A quel punto scrivo in chat a Glovo, giacché a Glovo non si può telefonare, e chiedo cosa diavolo sia successo, visto che evidentemente, quando mi hanno detto che stavano ancora cercando un fattorino, mi hanno mentito. Mi spiegano che il software faceva andare il fattorino al locale ma poi, quando quello arrivava lì, non glielo dava come assegnato a lui, e quindi il tapino non poteva ritirarlo.
Dico beh, immagino andasse cliccato qualcosa, è passata un’ora e venti prima che lo faceste? Mi rispondono: no, era più grave, era un problema del software che ha bloccato l’ordine.
Lasciate che vi parli della mia amica C. La mia amica C. si è vaccinata a Bologna, e lascerò incidentalmente detto qui che quattro su cinque delle storie assurde intorno ai vaccini che mi raccontano vengono dalla favolosa sanità emiliana. Alla mia amica C. non è mai arrivato l’sms che la certifica come vaccinata, quello che è arrivato alla maggior parte di noi entro dieci secondi.
Ha un foglio di carta, quello che ti danno dicendoti che ti sei vaccinata e con che vaccino e in che date, quello che io ho perso entro otto secondi e lei per fortuna no, ma se volesse mangiare al tavolo interno d’un ristorante non potrebbe.
La mia amica C. ha seguito tutti i consigli per recuperare il proprio codice, ma niente. È andata negli appositi uffici e s’è fatta stampare il certificato vaccinale, che è un sostituto della certificazione verde ma immagino dipenda dall’elasticità mentale di chi deve controllartelo. Ha scritto a tutti, giacché è una rompicoglioni.
Il ministero della salute (con specifica «piattaforma nazionale dgc», che immagino sia digital green code, perché più non sanno trovarsi il culo con le mani più ci tengono a far sapere che alle medie avevano la sufficienza in inglese) le ha risposto che «purtroppo nella piattaforma nazionale-DGC con i dati da lei forniti non risulta generato alcun green pass. Provvederemo a segnalare il suo caso alla regione di somministrazione perché provveda quanto prima alla trasmissione dei dati alla piattaforma nazionale-DGC» (che è quella che firma la mail, e che quindi parla di sé in terza persona).
È stato allora, quando il ministero a metà agosto ha detto che provvederà a segnalare, che ho pensato che chiunque – Salvini, Satana, la strega di Biancaneve – abbia spinto perché la certificazione non fosse obbligatoria sui mezzi di trasporto non stava salvando l’estate agli antivaccinandi: stava prendendo atto che l’algoritmo è scemo, e che non si può impedire a una poveracrista d’andare in vacanza solo perché i software non sanno parlarsi tra di loro.
Che non possiamo affidarci all’informatica quando una piattaforma di consegne non sa comunicare ai suoi fattorini che devono consegnarmi un toast. Quando il computer del centro vaccinale non sa comunicare al computer che fa le certificazioni che C. è stata vaccinata. Quando io e la mia amica S. sghignazziamo di Tizio che ha mandato una pec per risultare più autorevole nelle sue ridicole comunicazioni, e due ore dopo la pubblicità su Instagram tenta di vendermi una casella pec.
Ogni tanto qualcuno (qualche settimana fa Michele Serra) scrive che l’algoritmo origlia e poi tenta di venderci le cose di cui ci ha sentito parlare. Puntualmente viene accolto dai saperlalunghisti dell’internet con sghignazzi che gli danno del vegliardo luddista, non funziona così, come puoi essere così fesso da crederlo, sei come quelli che compravano gli occhiali a raggi X.
Siamo – Serra e io e molti altri – i Galilei che questo secolo può permettersi, e spieghiamo a questi cattolici di ristrette vedute che eppur ci pubblicizza, e senz’altre spiegazioni possibili.
Ma il punto non è questo. Non è che se parlo di pec esso tenti di vendermi la pec perché mi origlia: il punto è che non è intelligente. Non capisce se la pec la sto sfottendo o desiderando. Non capisce i toni, i contesti, niente.
E infatti non cerca mai di vendermi quel che comprerei. L’algoritmo che dovrebbe saper tutto di me tenta di vendermi un kit per farmi la birra in casa: a me, che in casa non mi faccio neanche l’uovo al tegamino. O un prodotto per ammorbidirmi la barba, solo perché poco prima ho fatto una battuta sulla barba che è il reggiseno imbottito dei maschi, un bluff estetico.
Non capiscono niente, i software che dovrebbero dominare il mondo. Non che se un codice fiscale sta nel computer in cui sono segnati i vaccinati allora dovrebbe stare anche in quello che smista le certificazioni. Non che se spunta la casella con cui dice al fattorino d’andarmi a ritirare un toast poi dovrebbe anche spuntargli quella che gli permette di ritirarlo.
Il toast era buonissimo. Per l’ora e tre quarti di ritardo nella consegna, Glovo mi ha ricompensata con tre euro. Sono scarsi anche a quantificare il fastidio, gli algoritmi.