Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  agosto 12 Giovedì calendario

La morte dell’Impero Asburgico

A scuola l’abbiamo imparato in latino, «divide et impera», anche se pare che il primo a formulare il più antico (e il più sintetico ed efficace) programma politico sia stato Filippo il Macedone nel IV secolo prima di Cristo: «diàirei kài basíleue». Ma nell’Impero asburgico, dove si parlavano molte lingue compreso il latino (mentre il greco antico restava, come in ogni altrove, materia per professori), quel motto doveva suonare pleonastico. Per imperare, infatti, da quelle parti non c’era bisogno di dividere: era già tutto un gran spezzatino di etnie, usi, costumi, culture, tradizioni e, appunto, lingue. Dunque, metà del lavoro era già fatta, restava da fare l’altra metà, quella più facile, quella in discesa. Come a chi, dopo aver buttato giù una trentina di chili, si prepara alla dieta di mantenimento. Anche se esiste sempre il pericolo di farsi nuovamente ingolosire... Ed è proprio ciò che accadde nelle segrete stanze dei neoclassici palazzi viennesi, poco prima e durante la Grande guerra.
Detto brutalmente, e senza simpatie monarchiche, è questo il succo del saggio L’Impero asburgico, di Pieter M. Judson (Keller editore, pagg. 717, euro 30, traduzione di Mario Mansuelli), fra i maggiori esperti al mondo in materia.
Bene, da dove si comincia? Non dagli albori di una piccola famiglia nobile cortigiana del Barbarossa, comodamente alloggiata nel cantone svizzero dell’Argovia. Non dal su e giù di vari ed eventuali regnanti di casa Asburgo dai gradini più alti del Sacro Romano Impero. Non dal puzzle costruito, ben oltre i confini del suddetto SRI, verso Est, in secoli di accorta e lungimirante politica matrimoniale. E nemmeno dalla salita al trono della mitica Maria Teresa. No, Judson sceglie di iniziare il tour storico-geografico dal 1770. In quell’anno, da brava padrona di casa esperta in economia domestica, per fare il punto sui propri possedimenti Maria Teresa mise in moto una macchina perfetta impegnata a censire tutto, ma proprio tutto, dal Prater di Vienna alla più sperduta catapecchia slesiana o transilvana. E a chi affidò tale compito? Non ai burocrati centrali e periferici, dei quali, sotto sotto, non si fidava granché, bensì all’esercito. Ebbene, i «rilevatori militari» non si limitarono a misurare e a contare, ad annotare le fisionomie dei territori e a disegnare il corso dei fiumi. Fecero molto di più: un’autentica indagine demoscopica. Parlarono con la gente, con tutta la gente, dagli aristocratici ai contadini, dai preti agli impiegati, dalle massaie ai postini. Presero nota delle loro condizioni di vita, delle loro esigenze, delle loro lamentazioni. Poi salutarono e fecero dietrofront.
In quei giorni, in quei mesi, si creò fra la Corona e il suo Popolo un legame fiduciario che durò quasi un secolo e mezzo. Che guerre e rivoluzioni non spezzarono. Che i vari, e inquieti e confliggenti fra loro nazionalismi incastonati nella parure imperiale non scalfirono. Fu allora che il «dispotismo» si pregiò di un nuovo aggettivo: «illuminato». Scrive Judson: «Almeno sotto il profilo giuridico imperiale, i sudditi della Monarchia asburgica cominciarono a diventare cittadini dello Stato molto prima che la Rivoluzione francese fornisse un modello consolidato di cittadinanza nazionale in Europa». E nemmeno l’ingombrante pendant alla Révolution che fu Napoleone Bonaparte; nemmeno l’origine elitaria e di partito del quarantottismo; nemmeno l’interminabile derby, con tanto di tempi supplementari e rigori, fra Austria e Ungheria; nemmeno l’avanzata del terzo incomodo, ovvero dell’inestricabile ginepraio (iugo)slavo, riuscirono a spezzare il filo che univa il trono a chi nel trono vedeva, da lontano, la propria stella polare.
No, non vissero tutti felici e contenti. La storia che qui leggiamo non è una favola. Accanto alla scuola elementare gratis per tutti permaneva l’emarginazione degli ebrei; accanto alla censura light restava l’obbligo di avere (e di documentare) una Heimat, un paese di origine, altrimenti si finiva deportati dove più si poteva servire alla causa e alla cassa; accanto al Codice civile generale, alla delega alla sharia (!) per dirimere le cause fra musulmani e addirittura a una sorta di ius soli per gli immigrati che fossero stabilmente integrati, c’era pur sempre la «polizia segreta di Stato», e c’erano le salate tasse comunali imposte dagli amministratori locali, e c’era una leva che durava minimo otto anni... E, nota Judson, dopo l’inasprimento dei controlli nella fase post-Quarantotto, non erano in pochi a sottoscrivere il giudizio «dell’ex rivoluzionario Adolf Fischhof secondo cui il regime si reggeva grazie a un esercito di soldati dritti sull’attenti, a un esercito di devoti inginocchiati e a un esercito di informatori striscianti».
Tuttavia di norma, al di là dell’innamoramento collettivo per Sissi (si vedano i film al miele con la meravigliosa – e austriaca – Romy Schneider) e del culto per Cecco Beppe (si legga il racconto Il busto dell’imperatore di Joseph Roth), il popolo, quando si trattava di scegliere fra la stanza della nazione e il tetto dell’Impero non aveva dubbi a vantaggio del secondo.
Poi, però, come accennavamo sopra, arrivò la Grande guerra. L’Impero, invecchiato, claudicante, insicuro, non potendo perseverare nell’immobilismo centripeto che in fondo era stato la sua forza, fece il passo più lungo della gamba, ora malferma. La dieta di mantenimento che l’aveva tenuto in forma a dispetto di mille tentazioni non resse più. Altri imperi bussavano alle sue porte. Erano vicini di casa forti, chiassosi, invadenti. L’Impero, ormai somigliante a una Unione Europea sul tipo di quella che noi ben conosciamo, cioè un condominio slegato, ondivago, arrogante, volle comunque sfidarli fuori dalle mura domestiche. Perse. E la Storia ordinò il rompete le righe alle tessere dell’enorme puzzle che era stato.