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 2021  agosto 12 Giovedì calendario

Biografia di don Dante Carraro raccontata da lui stesso

Una cosa che ha imparato in Africa come medico?
«Il senso del limite. Sei alla clinica universitaria di Padova, giovane specializzando in cardiologia: la priorità è diagnosi e terapia. Poi arrivi nel piccolo ospedale di Dubbo, Etiopia, e trovi una mamma che ha il figlio con la malaria cerebrale. È arrivato troppo tardi: è malnutrito e già in coma. Non c’è una terapia intensiva, mancano i farmaci. Veder morire un bambino ti segna per sempre. Ti svegli di notte e hai impressi nel cuore gli occhi della mamma che te l’ha portato sperando in te». 
Don Dante Carraro, dal 2008 alla guida del Cuamm Medici con l’Africa, è nato 63 anni fa a Pianiga (Venezia). Il padre Attilio gestiva un piccolo negozio di alimentari in paese, dove anche mamma Gina dava una mano. Dal 1995 Carraro va su e giù dal continente africano. Ha appena scritto un libro, con Paolo di Paolo, «Quello che possiamo imparare in Africa», sottotitolo «La salute come bene comune», edito da Laterza. Ci siamo conosciuti in Sierra Leone durante il picco dell’epidemia di Ebola, e anche là abbiamo visto morire un bambino di malaria cerebrale, a Pujehun. Si chiamava Ibra, aveva una catenina portafortuna intorno alla pancia. A un certo punto l’avevano messo in un secchio con il ghiaccio per cercare di abbassargli la febbre. 
Il senso del limite è rassegnazione? 
«No, è pazienza tenace che non molla, direi ostinata». 
E come sacerdote cosa le ha insegnato l’Africa? 
«A sperimentare continuamente l’invito di papa Giovanni XXIII a “imparare la gerarchia delle verità”. L’incontro con l’Africa ti mostra quanto è essenziale e quanto invece è da relativizzare. Non puoi mettere tutto sullo stesso piano. L’unica cosa che conta è la persona. Al centro di tutto c’è l’incontro con l’Altro». 
Nel suo libro scrive che gli africani non hanno bisogno di musoni. E loro lo sono? 
«Qui abbiamo tutto e siamo arrabbiati da mattina a sera. Là trovi un continente pieno di difficoltà, che ti sbatte in faccia problemi immensi, molto più grandi di te. Si fatica tutto il giorno, ma poi si trova quasi sempre il momento del ristoro, anche dell’anima. Per alleggerire la tensione. Un po’ di serenità, di leggerezza, magari con una birretta o due tiri a ping pong. In Africa pensi: “Oggi abbiamo fatto la nostra parte, domani si ricomincia”». 
E la sua marca di birretta preferita? 
«A me piace molto la Nile Special. Ma anche la Tusker. Quattro gradi e mezzo, quindi per ubriacarsi ce ne vuole. È l’atmosfera umana che conta: ecco, mi sembra che l’Africa mi abbia reso meno arrabbiato, meno musone». 
Lei scrive anche che l’Africa assomiglia a una ragazza con cui si va al cinema la prima volta. Arduo paragone per un prete... 
«Beh, questo ha un po’ a che fare con la mia storia vocazionale. Ti innamori di una ragazza, vai al cinema, la conosci, senti che non funziona. Ricordo come fosse ora che andavo a mangiare la pizza, c’era questa ragazza con cui stavo insieme, mi piaceva, ci stavo bene, eppure capivo che non riuscivo a essere me stesso. Sentivo il desiderio di dare la stessa attenzione a tutti». 
E così è diventato sacerdote. Ma l’Africa? 
«È come una donna, complessa e affascinante. Pensi di capirla la prima volta che ci esci insieme, ma vedi che ti sfugge. Quasi ne sei deluso. Mi ci sono voluti sei o sette anni per innamorarmi davvero. E l’Africa continua a suscitare in me quel coinvolgimento, mi vien da dire viscerale. Inspiegabile. Incalzante». 
L’Africa è anche quel bambino che le è rimasto impresso alla prima esperienza ospedaliera: è in un lettino, sembra che le sorrida... 
«Ma è un sorriso strano, mi guarda fisso negli occhi. Mi rendo conto che non è un sorriso ma l’irrigidimento dei muscoli del volto. Un medico locale mi si accosta: “Ha il tetano, è arrivato troppo tardi, non possiamo fare nulla”. Quel bimbo è morto lucido, fissandoci negli occhi, perdendo progressivamente la capacità di respirare». 
Da noi non succede più. 
«In Africa è un’esperienza quotidiana. E l’antitetanica costa meno di un euro. È il tema della disuguaglianza di fronte al diritto alla cura, che il Covid ha amplificato. C’è un diritto sacrosanto alla dignità delle persone, di tutte le persone, affinché possano essere curate. È la salute come bene comune». 
Il Covid in Africa è una storia un po’ nascosta... 
«A volerla riassumere in una parola, direi che il Covid è “la paura”, anche di andare in ospedale a curarsi. Prendiamo la Sierra Leone, dove il Cuamm lavora nella più grossa maternità del Paese. Nel 2019 abbiamo assistito al parto 8.300 mamme. Nel 2020 sono state duemila in meno. Mamme che sono rimaste a casa, con tutti i rischi del caso. È andata così in tutti i 23 ospedali dove operiamo. E non vale solo per i parti. Bambini malnutriti, malati di tubercolosi, di Hiv, di diabete, persone che hanno bisogno di medicine quotidiane. Gli indicatori sanitari ci dicono che se non corriamo ai ripari, rischiamo di tornare indietro di 5-10 anni. E la pandemia ha moltiplicato il numero di coloro che vivono con meno di 2 dollari al giorno: erano 150 milioni prima, con il Covid arriveranno a 300 milioni. Motivo per cui bisogna vaccinare». 
Finora solo l’1% della popolazione africana è completamente vaccinato. Come si accelera? 
«Intervenendo a due livelli. In primis facendo sì che i vaccini ci siano anche per i Paesi più poveri, condividendo i brevetti e sostenendo la sfida del Covax. Ma poi il vaccino deve diventare “vaccinazione” va portato in quell’ultimo miglio, con un grande sforzo logistico. È su questo che siamo impegnati negli 8 Paesi in cui siamo presenti, lavorando a fianco della sanità locale». 
Lei va su e già dall’Italia all’Africa. Ha tenuto un calcolo di quanti chilometri ha fatto? Aerei, pulmini, macchine, motorini... 
«No, forse in effetti dovrei farlo. Ma c’è una canzone del mio caro amico Niccolò Fabi che amo tanto e che sento mia: “Grazie a chi mi ha regalato un movimento, allontanandomi da qualcosa e avvicinandomi a qualcos’altro. Avvicinandomi a qualcuno e allontanandomi da qualcun altro”». 
Quante persone lavorano al Cuamm? 
«Con 23 ospedali, 3 scuole infermieri, 1 facoltà di medicina, circa 1.100 presidi sanitari più piccoli, ci sono circa 4.000 persone coinvolte, di cui 300 espatriati in massima parte italiani. Tutti gli altri sono africani. Penso alle ostetriche formate in Uganda che vanno ad aiutare in Sud Sudan. Si pensa spesso che ci sia un’Africa succube, pronta soltanto a chiedere l’elemosina. Ma c’è un’Africa che tira fuori i muscoli. Un’Africa fortissima che va descritta, fatta di persone che io chiamo i fanti del bene». 
Non cavalieri? 
«Sono innamorato dei “fanti”, della loro nobiltà d’animo. Un’organizzazione non va avanti senza l’impegno degli operatori umili, tenaci, e questo vale all’ospedale di Chioggia come in quello di Maridi». 
Dov’è Maridi? 
«Sud Sudan, regione del Western Equatoria, un ospedaletto a cui sono molto affezionato, forse il più sperduto dei 23. Tenuto in piedi da John, chirurgo ugandese, e dall’infermiere locale Joseph, che fa il direttore. Pochissime risorse. Quando ci sono andato non c’era energia. Vedere con che dignità facevano il loro mestiere. Ecco gli ostinati fanti che portano avanti la baracca. A Maridi quella volta si era rotto il generatore. John andava a fare i cesarei di notte con la pila frontale. Quando sono tornato in Italia mi sono attivato. La catena del bene ha funzionato, un amico mi ha detto “i 20 mila euro li tiro fuori io”. Sono grandi segnali di speranza». 
La pandemia ha messo alla prova la catena del bene verso l’Africa? 
«Marzo-aprile dell’anno scorso, il momento più acuto dove tutti hanno preso paura vedendo la crisi del nostro sistema sanitario. Noi stessi, che sentiamo il dovere della solidarietà nei confronti dei più lontani, abbiamo sentito la necessità di viverla stando vicino ai bisogni della gente qui. Mancavano i respiratori. Abbiamo fatto un gesto, anticipando 150 mila euro che ancora non avevamo per aiutare due ospedali, in Veneto e in Lombardia. I nostri donatori ci hanno sostenuto e insieme non hanno dimenticato l’Africa». 
Però molti Paesi africani hanno sofferto una riduzione di aiuti. Il Covid ha drenato risorse... 
«Sì, soprattutto i donatori internazionali hanno ridotto il loro apporto. In Sierra Leone per esempio si è passati da un budget sanitario, che dipende in gran parte dall’estero, di 89 dollari annui procapite, ai 18 dollari di quest’anno. Sono stato a Pujehun ad aprile e non c’era il carburante per l’ambulanza». 
Le organizzazioni umanitarie si trovano spesso a operare in Paesi con un grande deficit di democrazia, talvolta sotto regimi autoritari. Ma in nome della salute si possono voltare gli occhi di fronte ai soprusi? 
«I soprusi generano soprusi e questo ostacola la salute, specie per i più poveri. Sono sempre loro a rimetterci. Solo se si fronteggiano i soprusi si garantisce la salute». 
Da giovane ha ascoltato cento volte il discorso «I have a dream» di Martin Luther King e nutre un amore speciale per la Ginestra di Leopardi. C’è un filo che li lega? 
«È il filo della dignità e della resistenza di chi non tollera ingiustizie e discriminazione, così come rifugge dalle facili illusioni, dai sogni irrealizzabili». 
Ma poi, don Dante, quella ragazza con cui usciva a mangiare la pizza? Vi siete più rivisti? 
«Sì, abbiamo continuato a essere amici e a impegnarci in parrocchia. Poi la vita ci ha portato su strade diverse e lei è volata in cielo presto, da giovane, a causa di un incidente. Ora riposa nello stesso cimitero dei miei genitori e mi piace pensare che ho un angelo in più in paradiso».