Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2021
Storia delle riviste letterarie
Potrà sembrare una provocazione, ma l’antenato degli house organ in Italia è una rivista di poesia, «La Linea Ligure», fondata nel 1895 a Oneglia, in provincia di Imperia, come foglio pubblicitario dello «Stabilimento P. Sasso e Figli. Produttori di Olii d’oliva vergini». Questo riportava l’insegna liberty che stava a intestazione di ogni fascicolo. Certo si tratta di un esempio un po’ ai limiti rispetto ai successivi periodici aziendali, non necessariamente nato con la missione di far conoscere un determinato modello imprenditoriale e tuttavia conservava, accanto a uno spiccato interesse letterario, l’idea di pubblicizzare la ditta Sasso, lo stesso marchio che nel Carosello televisivo degli anni Sessanta avrebbe contribuito all’immaginario del boom con lo sketch del signore in pigiama che sognava di dimagrire correndo dietro a un aquilone e al mattino si svegliava ripetendo: la pancia non c’è più, la pancia non c’è più... Mario Novaro, l’animatore del fascicolo, era il nipote per parte di madre della famiglia di imprenditori e forse aveva intuito che l’unione tra impresa e umanesimo, l’idea che qualsiasi industria potesse promuovere la cultura e farsi protettrice delle arti, sarebbe stata una delle costanti del Novecento.
Lo conferma un mensile come «Il Gatto Selvatico», finanziato dall’Eni tra il 1955 e il 1965 e orientato al racconto dei pozzi petroliferi in Medio Oriente e delle pompe di benzina degli autogrill, lungo l’Autostrada del Sole. Anche qui si celebrava l’eccezionalità del matrimonio tra letteratura e industria, e lo si faceva invitando a scrivere le migliori firme dell’epoca: Bassani, Calvino, Cassola, Gadda, Longhi, Sciascia. Era l’affermazione di un paradigma: gli imprenditori non potevano fare a meno dei creativi e questo originale legame avrebbe dato origine a quel capitalismo all’italiana, in cui le chiavi della comunicazione aziendale – e dunque anche di molti house organ – erano affidate ai letterati. In quell’Italia gli imprenditori avevano il coraggio di osare l’azzardo della poesia. Non mi riferisco al modello Olivetti, che vantava un vero e proprio primato: da Bigiaretti a Buzzi, da Fortini a Giudici, da Ottieri a Pampaloni, da Soavi a Volponi. «Il Gatto Selvatico» lo dirigeva Attilio Bertolucci, chiamato alla direzione da Enrico Mattei. E in quegli anni ci sono almeno due importanti periodici – «Pirelli» (1948) e «Civiltà delle Macchine» (1953) finanziati, il primo, dalla casa produttrice di pneumatici e, il secondo, da Finmeccanica – entrambi figli della visione politecnica del poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli.
Ognuna di queste pubblicazioni non svolgeva soltanto il compito di far conoscere all’esterno i prodotti o, meglio, non si limitava a cogliere finalità pubblicitarie. Spesso anzi, tra le righe, trapelava un’interpretazione del progresso, una chiave di lettura dei fenomeni legati alla modernità, a cui si mescolava il desiderio di raccontare (oggi diremmo storytel ling). Gli house organ sono nati anche per questo: diventare narrazione della cultura industriale, contenere idee, dialoghi, dibattiti, perché il moderno non ha mai un volto univoco e le sue sfaccettature vanno osservate con cautela ma anche con entusiasmo, facendo attenzione a coniugare gli interessi di mercato con la ricerca del bello e della funzionalità. È questo il made in Italy. «Veniamo a conversare con voi» scriveva Alberto Pirelli nel novembre del 1948, sul numero d’esordio della rivista che reca il suo cognome. Era il momento aureo in cui le fabbriche sentivano il bisogno di non essere più luoghi chiusi, di parlare a un pubblico più vasto degli addetti ai lavori. E ancora oggi è questo il tema cruciale su cui stabilire il valore di un’esperienza, avendo come termine di paragone, tra le miriadi di pubblicazioni che hanno accompagnato il Novecento, i caratteri di un’operazione non più aziendale, ma culturale.
Per avere un’idea di quanto sia labirintico il panorama, basterebbe visitare www.houseorgan.net, un contenitore virtuale attivo da pochi anni, in cui Giorgio Bigatti e Carlo Vinti hanno inventariato un centinaio di titoli novecenteschi: da «A come Aramis» (notiziario di una camiceria bergamasca, stampato tra il 1966 e il 1970) a «Vita Nostra» (bimestrale della Banca Cattolica del Veneto, pubblicato tra il 1952 e il 1973). I nomi dei collaboratori sono un elemento fin troppo indicativo per stilare una possibile graduatoria. Quando ci si imbatte in una testata ad alta frequentazione letteraria, si comprende subito impostazioni, finalità, tipologie di ricerca. Si capisce cioè che l’azienda mirasse in alto. Un battistrada, una macchina da scrivere, un motore per aeroplani, un prodotto farmaceutico possono essere raccontati da chiunque, ma se a riportare le impressioni di una gita al lago su un’automobile che viaggia con pneumatici Pirelli è la voce di Vittorio Sereni, probabilmente l’approccio cambia. Lo stesso discorso vale se sia la mano folle di Gadda a descrivere come si prepara il risotto alla milanese sul «Gatto Selvatico» o se tocchi a Umberto Eco interrogarsi sul successo di Mike Bongiorno su un numero di «Pirelli».
Qualcuno potrebbe domandarsi che tipo di congruenza ci sia stata tra le questioni strettamente legate all’industria e la collaborazione degli uomini di lettere, che partecipavano di un fenomeno socioeconomico non sempre convinti, magari solo per non disattendere a un invito così prestigioso e ben remunerato. Apparentemente sembrerebbero posizioni distanti. Poi però, superata la soglia dell’apparenza, si comprende che dietro agisce un progetto culturale assai ambizioso. Lo illustra mirabilmente Sinisgalli rispondendo a Ferdinando Camon che lo intervistava nel 1965: «L’inverno del 1953, quando misi a fuoco il progetto di “Civiltà delle Macchine”, la cultura dell’Occidente era rimasta incredibilmente arretrata e scettica nei confronti della tecnica, dell’ingegneria. Voglio dire che erano sfuggite alla cultura le scoperte di Archimede e di Leonardo, di Cardano e di Galilei, di Newton e di Einstein. Io volevo sfondare le porte dei laboratori, delle specole, delle celle. Mi ero convinto che c’è una simbiosi tra intelletto e istinto, tra ragione e passione, tra reale e immaginario. Ch’era urgente tentare una commistione, un innesto, anche a costo di sacrificare la purezza»
Commistione, innesto: Sinisgalli usa termini che appartengono al linguaggio della chimica e della botanica. Sospettava un ritardo da parte degli umanisti nei confronti del pensiero scientifico e per colmarlo, per ridurre l’handicap, non trovò di meglio che mandare i poeti a visitare le fabbriche. «Civiltà delle Macchine», la rivista che fondò con Giuseppe Eugenio Luraghi e diresse nei primi cinque anni, rappresenta il modello più ambizioso di dialogo tra la cultura tecnologica e la cultura umanistica. Inutile, in questa sede, porsi il problema se la risposta degli intellettuali fu all’altezza del compito assegnato. Probabilmente no: essi videro catene di montaggio e le raccontarono scambiandole per congegni ludici, una sorta di luna park da ammirare con incanto. Resta valido, tuttavia, il tentativo di tracciare i confini etici e filosofici di un’umanità che aveva abbandonato gli attrezzi per lavorare la terra e si era data anima e corpo alle fabbriche. In un celebre pamphlet del 1959 Charles P. Snow sosteneva l’inconciliabilità delle “due culture”. Il bimestrale di Finmeccanica, rinato qualche anno fa all’interno della Fondazione Leonardo, già dalle sue origini sconfessava questa teoria.