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 2021  agosto 11 Mercoledì calendario

Perché la Cina vieta i videogiochi ai bambini

C’è un Paese così convinto che i bambini siano una risorsa scarsa da proteggere, che cerca di limitare la loro dipendenza dai videogiochi. Non è l’Italia. È la Cina, dove le tendenze demografiche più recenti somigliano sempre di più alle nostre: meno 32% di nascite dal 2016, al punto che il numero di figli per donna è ormai pari a quello – bassissimo – dell’Italia. Le sue politiche per la natalità non sono più efficaci delle nostre, ma il governo di Pechino sembra dedicare una cura particolare alla formazione psicologica dei pochi bambini che ci sono. Tencent, il colosso digitale cinese, ha appena annunciato nuove restrizioni su richiesta delle autorità: i minori di 13 anni non avranno accesso ai videogame per più di un’ora al giorno. I media di Stato definiscono ormai quei giochi «oppio spirituale» per i ragazzi. 
La preoccupazione del Partito comunista cinese per i più piccoli naturalmente ha un sapore equivoco. Il regime vuole impedire che i videogiochi controllino le loro coscienze solo perché considera quel potere un proprio monopolio. Il Partito comunista non cerca di far sì che le persone crescendo imparino a essere libere, intende solo sottometterle alla manipolazione che preferisce: la propria. Eppure la scelta di limitare la dipendenza dei bambini dai videogiochi e dai giganti della Rete pone anche a noi occidentali domande difficili sul modo in cui definiamo la nostra educazione alla libertà. Di certo il governo di Pechino è chiaramente preoccupato che, con la loro ascesa, le Big Tech cinesi diventino un contropotere autonomo nel Paese. L’ultima mossa per contrastarle è la fine degli sgravi fiscali straordinari, che di fatto alza il prelievo sui profitti di Tencent o sul gigante dell’e-commerce Alibaba dal 10% al 20%. 
Anche in Europa e negli Stati Uniti si discute dell’esigenza di far pagare alle Big Tech tasse su aliquote più simili a quelle delle altre imprese. Ma per ora stiamo solo cercando la forza di farlo.