Montalbetti, l’abbiamo cercata apposta per iniziare questa serie di interviste sulle estati in musica dei decenni passati. Certo che deve raccontarci il bello.
«Il bello è che non c’era niente di voluto in tutto questo. O, per meglio dire, niente di programmato.
Insomma, non eravamo come altri cantanti che, legittimamente intendiamoci, ogni estate facevano uscire una canzone balneare che parlava di mare, sole, amori. Per noi era tutto casuale, anche perché raramente abbiamo avuto una gestione veramente manageriale.
Insomma, le cose ci capitavano. E ovviamente noi facevamo di tutto per farle andare al meglio possibile.
Lo abbiamo sempre fatto e infatti siamo tra le band più longeve di Europa, ci battono giusto i Rolling Stones».
Prima di continuare, già che parliamo di esordi, ma è vera la storia dell’arcivescovo...?
«Come no. Erano iniziati gli anni Sessanta, ci chiamavamo Squali, mio fratello Cesare lavorava all’arcivescovado di Milano e convinse il cardinale Gian Battista Montini, di lì a poco eletto Papa come Paolo VI, a scrivere due righe: "Raccomando questi ragazzi perché sono bravi parrocchiani". E così la Ricordi ci fece un contratto».
E dopo un po’ di gavetta ecco "Sognando la California".
«Estate del 1966, qualcuno di noi lavorava ancora, non campava di musica. Io ci provavo. Ci proposero questa traduzione di California dreamin’ dei Mamas & the Papas che era formidabile nella sua semplicità, nel trasmettere uno stato d’animo. La portammo inizialmente a Sanremo, ci aveva scritturato il casinò, anche se i clienti — tra cui un ministro — protestarono a lungo per le nostre chitarre elettriche che per loro facevano chiasso. Però poco a poco qualcosa cambiava, la gente ci fermava, ci chiedeva il pezzo. E ci ritrovammo ai vertici dell’hit parade, ci batté solo Strangers in the night di Sinatra. Decidemmo di metterci in aspettativa per un anno per vedere che succedeva».
Ne avete ricavato non poco.
«Lei dice? Senta qui. Ci davano il 2,5% in cinque. Poi arrivammo al traguardo di due milioni di copie vendute: la casa discografica fece una festa e ci regalò una magnum di vino. Una in cinque. E poi passò al 3,5%, sempre in 5. Poi non mi lamento certo dei soldi guadagnati in questi decenni, ma è per capirci».
Almeno avete avuto la soddisfazione di essere la colonna sonora dell’Italia in vacanza.
«Certo, penso anche all’ Isola di Wight , che nel 1970 portò anche da noi una ventata di quel mondo di amore, gioia e libertà che era l’hippie. Quelle estati erano più semplici da vivere e da godere, noi cercavamo di fare il nostro. Penso alle chitarre, agli amplificatori, adesso i suoni sono tutti un po’ finti. Però io ci credo ancora, anche adesso sento il flusso delle anime di chi ci ascolta, di chi, se intoniamo Sognando la California , immagina davvero di volare lì, lontano dal cielo grigio e le foglie gialle. Questo deve fare la musica, dare emozioni, passioni».
E adesso, dopo la morte di Pepe Salvaderi, chitarrista e tastierista?
«Si continua. Oltre a me ci sono Giancarlo Sbriziolo, detto Lallo, alla voce e alle chitarre, Gaetano Rubino alla batteria, Mauro Gazzola alle tastiere, Max Brera alle chitarre.
Facciamo ancora un numero spropositato di date, soprattutto in estate: siamo arrivati a 120. E stiamo per fare un nuovo disco, Una vita d’avventura ,quattro classici e il resto inediti.
Dentro c’è ancora Pepe. E lo abbiamo fatto alla vecchia maniera: chitarre vere, niente computer, cori di bambini. Se siamo durati fino a oggi è perché siamo sempre noi stessi. Anche col pubblico. Vuole sentire l’ultima?».
Siamo qui per questo.
«Un giorno pranzo con Battisti.
Arrivano dei fan. Lucio si nega, non fa autografi. Io sì. Poi gli chiedo perché fa così. Dice: "Perché gli autografi sono immorali".
Rispondo: "Ma i diritti che i tuoi fan versano alla Siae non sono immorali". È restato in silenzio».