la Repubblica, 10 agosto 2021
Il fascino dell’inflazione
Nel mezzo della pandemia, le grandi economie del mondo hanno scoperto il fascino discreto dell’inflazione. Dopo decenni passati a combattere il “drago dell’inflazione”, come soleva chiamarlo il leggendario capo della Federal Reserve Paul Volcker, le banche centrali stanno cercando di convincere i mercati, i contribuenti, e forse anche se stesse, che il caro-prezzi non fa poi tanto male.
Anzi, nel caso della Fed americana e della Banca Centrale Europea, il nuovo mandato è quello di promuovere l’inflazione, tenendo i tassi d’interesse bassissimi e stampando miliardi e miliardi di dollari e euro per spingere i propri Paesi oltre gli ostacoli creati dal virus.
Fabio Panetta, il rappresentante italiano nell’esecutivo della Bce, lo ha detto apertamente a fine giugno: i prezzi devono salire per “tenere l’economia su di giri”.
Nel sommesso mondo delle autorità monetarie, queste sono parole-bomba: la fine di un’ortodossia che durava dalla fine degli anni ‘70 quando Volcker vinse una battaglia campale contro il dragone inflazionistico Usa.
Un’inversione di marcia così repentina è anche un’ammissione di colpa. Per tanto, troppo tempo, le banche centrali di Stati Uniti e Europa hanno guidato l’economia mondiale col freno a mano tirato perché paventavano una fiammata inflazionistica di cui non c’è stata traccia per quasi mezzo secolo. I “falchi” dell’inflazione (in Europa, li trovate dalle parti di Berlino, in America tra i fautori del libero mercato) non hanno mai avuto l’onestà intellettuale di dire che l’inflazione è come il vino rosso: in moderazione non è nociva e può anche far bene, è l’eccesso che porta a risultati disastrosi.
Il “bello” dell’inflazione è che è un sintomo di un’economia in ripresa – c’è più denaro in circolazione, le aziende sono pronte ad alzare i prezzi e i consumatori sono pronti a pagarli perché entrambi sono ottimisti sul futuro. La condizione fondamentale, però, è che la risalita dei prezzi sia accompagnata da un simile aumento dei salari.
Se ciò accade, l’inflazione può addirittura ridurre le disparità economiche perché aumenta il potere d’acquisto delle classi medio-basse e allo stesso tempo erode il costo dei loro debiti. Le ultime notizie su questo fronte sono incoraggianti: dopo anni di ristagno, i salari stanno cominciando ad aumentare, soprattutto negli Usa dove c’è carenza di lavoratori in molti settori.
Il rischio è che Washington e Francoforte commettano un errore speculare a quello degli ultimi anni, mantenendo politiche monetarie troppo rilassate e gonfiando una bolla inflazionistica. I critici notano che il caro-prezzi negli Usa è già ai livelli più alti dal 2008, mentre nella zona-euro è balzato al di sopra del nuovo obiettivo della Bce. I banchieri centrali dicono di non preoccuparsi, che si tratta di fenomeni temporanei, e che siamo ben lontani dai picchi inflazionistici del 13-14% che scatenarono Volcker (gli Usa sono al 5.4%, la zona-euro al 2.2%).
È tutto vero, ma solo a metà. I banchieri sembrano dimenticarsi che più l’inflazione rimane elevata, più aumentano le aspettative inflazionistiche dei vari agenti economici. Quando aziende, cittadini e mercati sono “convinti” che i prezzi continueranno a salire, tirano i remi in barca (investono e spendono meno ecc.), riducendo le attività produttive, commerciali e di consumo. Ciò crea un dilemma atroce per le banche centrali: se riducono i tassi per stimolare l’economia rischiano di creare ancora più inflazione, ma se li alzano per combattere il caro-prezzi a soffrirne è la crescita.Visti i grandi sforzi delle autorità monetarie per tirarci fuori dalla pandemia, speriamo che non diventino schiave del fascino discreto, ma pericoloso, dell’inflazione a lungo termine.